a�? Vogliamo liberare la fotografia dal suo carattere contorto, espressionista, e riportarla a una severa oggettivitA� per catturare la realtA� a�?.
E’ comprensibile che possa accadere che al cospetto di una fotografia che rappresenta in un asettico bianco-nero un silos, un serbatoio dell’acqua, degli elevatori delle miniere oppure semplicemente le facciate di alcune case a graticcio tutte uguali e riprese frontalmente, l’osservatore distratto e che non abbia approfondito il decennio della Storia della Fotografia che ha dato vita a immagini di chiara matrice metafisica, rimanga quanto meno perplesso.
In realtA� Bernhard e Hilla Becher, uniti non solo nella loro attivitA� ma anche nella vita privata, sono artisti poco conosciuti al grande pubblico e ai non addetti ai lavori, ma rappresentano una pietra miliare nella storia della Grande Fotografia.
Per comprendere ed avvicinarsi alle loro opere, bisogna innanzitutto comprendere che le loro fotografie, pur rappresentando oggetti inanimati, sono in realtA� dei “ritratti”. Puri e semplici ritratti, ma non di persone e nemmeno riproduzioni di paesaggi o ambienti, ma ritratti di strutture industriali finalizzati alla creazione di un repertorio e direi quasi di una catalogazione. La strada da loro percorsa A? in stretta analogia con quanto creato da August Sander. Ma Sander, fotografo tedesco vissuto dal 1876 al 1964, aveva iniziato nel 1910 a ritrarre, con sistematicitA� schematica, contadini, commercianti, operai, artisti, industriali, aristocratici ed altri appartenenti a tutte le classi sociali del popolo tedesco, con l’idea di costruire un gigantesco archivio suddiviso per tipologia. Idea questa comunque che non deve far pensare che lui fosse animato da intenti sociologici e realistici.
Alla pari di Sander, anche i coniugi Becher hanno dato vita ad immagini di “accumulazione” e di “schedatura” di oggetti appartenenti a quella che A? stata chiamata “archeologia industriale”. La loro perA?, a differenza di Sander che si era prefissato l’obiettivo di costituire un grande archivio tipologico dell’uomo del ventesimo secolo, A? un lavoro con le caratteristiche della pura ricerca storico-industriale a matrice concettuale. Loro per anni, con coerenza e insistenza tutta tedesca, hanno trattato allo stesso modo le costruzioni industriali diventate nell’arco di qualche decennio reperti archeologici di una contemporaneitA� che si A? rivelata improvvisamente un abissale passato. Il mondo industriale da loro trattato, gli scenari appartenenti alla fabbrica e all’industria in cui la figura umana A? totalmente assente, sono delle sculture senza identitA�, testimoni e documenti di quanto di piA? impersonale esisteva negli anni Cinquanta. E’ facile in questo caso usare il termine “archeologia industriale”, ma i coniugi Becher hanno sempre rifiutato questo termine. Loro non facevano archeologia industriale: A�A�hanno sempre dichiarato di aver scelto per le loro fotografie edifici e macchinari funzionanti che ora vengono chiamati fantasmi, ma che allora erano vivi. “L’archeologia – disse Hilla Becher in una celebre intervista – va riservata alle pietre, che restano per sempre. I materiali delle nostre fabbriche scompaiono invece senza lasciare traccia.”
Il loro interminabile, ossessivo e classificatorio lavoro ha fortemente influenzato la ricerca di altri fotografi, tra i quali voglio ricordare l’italiano Basilico, scomparso nel 2013.
L’aspetto puramente concettuale nel loro modo di pensare e creare, A? il principale motivo di interesse delle loro opere in quanto nelle loro fotografie si individua come fondamento quell’identitA� anti-pittorica che richiama il ready made di Duchamp e del quale mi riprometto di parlarne in un nostro prossimo incontro. Questo penso sia il loro principale merito: l’aver creato una fotografia concettuale che ha rivoluzionato l’arte degli anni Sessanta in quanto basata su una serialitA� che anticipa il minimalismo.
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