a�? L’immagine A? spirito, materia, tempo, spazio, occasione per lo sguardo. a�?
Mario Giacomelli A? stato uno degli autori italiani piA? conosciuti nel mondo della fotografia. Potrebbe sembrare un assurdo, ma mi riesce difficile classificarlo come un fotografo professionista e cosA� pure un dilettante. Il termine “artista” mi appare piA? appropriato in quanto la sua fotografia non A? solo la materializzazione di un’idea, ma un programma che la trasforma in “arte”. Lui non A? mai stato un fotografo che si piega alle esigenze di mercato e ha sempre fotografato per propria soddisfazione. Ha sempre usato i propri occhi “come uno strumento per prendere, per rubare, per immagazzinare cose che vengono poi intrise e rimesse fuori per gli occhi degli altri “. Conforta il mio osare nel classificarlo come un “fotografo della domenica” quanto lui era solito ripetere: “Io fotografo quando ho tempo. Io non sono un mestierante, nessuno mi puA? mandare a fotografare, nessuno mi puA? dire: adesso vai a fotografare. Neanche la fame me lo puA? dire. Vado quando fa comodo a me, quando mi sento preparato. Se sono distratto io non fotografo…”
A volte penso che se Giacomelli, che ha fotografato fino ad un anno prima della sua scomparsa (11/2000) con l’incompiuto progetto La domenica Prima, si fosse trovato a dover fotografare ai giorni nostri, sicuramente avrebbe incontrato non poche difficoltA�, soprattutto di carattere tecnico e comportamentale. Questo perchA? oggi il mondo della fotografia A? dominato dall’esasperata ricerca della perfezione tecnica dell’immagine, dall’acquisto di apparecchi che offrono sempre piA? megapixel e la possibilitA� di fotografare con raffiche fino agli assurdi 11 scatti al secondo, e via discorrendo. Questa frenesia, fatte ovviamente le debite eccezioni, distrae dalla ricerca dei contenuti e appanna le idee.
Mario Giacomelli era solito ripetere: “Se io potessi, fotograferei senza macchina; non ho questo grosso amore per la meccanica.” Per lui, vero artista, il mezzo meccanico non ha mai contato niente, perchA� A? sempre riuscito a far fare alla macchina fotografica quello che lui voleva. Non l’ha mai considerata uno strumento per la ripresa della realtA�, ma soprattutto un mezzo espressivo. Giacomelli ha raccontato in un’intervista degli anni ottanta, che nel 1953, la vigilia di Natale, ha acquistato una Comet Bencini pagata 800 lire e il giorno dopo A? andato sulla spiaggia di Senigallia, suo paese d’origine, a fotografare il movimento delle onde. L’approdo A? stata la sua prima fotografia. Poi ha abbandonato quella macchina e la sua nuova compagna di tanti anni di scatti l’ha fatta fare lui: ha smontato un’altra macchina di un suo amico e tolto tutte le cose per lui inutili. La pellicola era sempre un medio formato. Ha solo e sempre usato quella, con il tempo tutta legata con lo scotch perchA� perdeva i pezzi. L’importante era che desse a lui la possibilitA� di rendere fruibili le sue idee, i suoi sentimenti, e che fosse uno strumento della mente, un tramite necessario per far intravedere la differenza tra la realtA� vista e quella esistente.
Giacomelli, affacciatosi inizialmente al mondo dell’arte con la pittura, ha trovato nell’immagine fotografica la soluzione che gli era preclusa dall’indeterminatezza della sua pittura, di tipo informale, cioA? come rappresentazione del caos da cui bisogna districarsi. CosA� A? riuscito a realizzare situazioni concettuali come veri e propri racconti visivi. Non A? importante che le sue immagini manifestino manchevolezze tecniche a volte vistose, difetti di granatura, ritocchi grossolani, contrasti eccessivi, stampe bruciate; forse sono proprio queste caratteristiche che attraggono rendendo affascinanti le sue immagini.
Le sue fotografie procedono per temi, senza mai cadere nella specializzazione. Giacomelli ha fotografato paesaggi, nature morte, vicende umane e volti che sono elementi di un racconto. Famosi sono i suoi reportage sui derelitti portati a Lourdes (1957), sul vagabondare degli zingari (1958), sulla solitudine degli abitanti di Scanno (1957/59), sulla Puglia (La buona terra – 1964), sulle tribA? dell’Etiopia (1974) e sulla brutalitA� del Mattatoio (1961) e tanti altri ancora, fino al piA? recente Io sono nessuno del 1994. Ma fra tutte le sue opere non si puA? non ricordare VerrA� la morte e avrA� i tuoi occhi (immagini sconvolgenti dell’ospizio di Senigallia) e la famosissima e immortale serie Io non ho mani che mi accarezzino il viso, scattata nel seminario sempre della sua Senigallia, in cui sono rappresentati i seminaristi che giocano con la neve. Pur essendo le immagini composte da un solo fotogramma, Giacomelli riesce, come per magia, a far ruotare le sagome dei pretini (nero su bianco) come le silhouette sullo schermo di un teatrino.
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