venerdì , 22 Novembre 2024

TRENTINO CULT – Intervista 28
Katia Bernardi

Katia Bernardi

regista
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Katia Bernardi sta vivendo un grande successo grazie al documentario “SLOI. La Fabbrica degli invisibili” realizzato in collaborazione con Luca Bergamaschi e dedicato al tema della sicurezza sul lavoro. La sua esperienza come documentarista ha perA? radici profonde che affondano in un passato ricco di progetti e soddisfazioni. Ai microfoni di Trentino Cult Katia racconta del percorso realizzato, delle soddisfazioni e delle difficoltA� che incontra quotidianamente.

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2 commenti

  1. Gentile Katia,
    Sono in attesa di vedere il tuo documentario (oggi) e dico che fai bene a temere alto l’interesse su questi argomenti. Perchè il lavoro è da sempre una parte centrale per ognuno di noi e non può (come invece è successo) e soprattutto non deve portare delle conseguenze così terribili come ha fatto per parecchi lavoratori della Sloi.
    Ci vuole sempre più sicurezza sui luoghi di lavoro (specie quelli ad alto rischio) e anche, da parte dei nostri amministratori, una giusta ed adeguata risposta in termini concreti a quegli operai che sono stati vittima di una informazione sbagliata sul lavoro che svolgevano e che ora pagano le conseguenze…

  2. Ho visto ieri sera, al Cinema Astra, il documentario di Katia Bernardi e Luca Bergamaschi sulla Sloi, la Fabbrica degli Invisibili. Che il documentario ha reso “visibili”, almeno per quanto riguarda i lavoratori superstiti e li ha fatti conoscere a quanti sono venuti a vedere questo film, perché attratti da questa storia.

    E vorrei raccontare anch’io questa storia come l’ho vista io ieri sera. Sulla base di una ricostruzione fedele fatta dalla regista.

    SLOI (Società Lavorazioni Organici Inorgnici). LA FABBRICA DEGLI “INVISIBILI”

    E’ la storia di una fabbrica piantata qui da quell’ industriale bolognese amico del Capo del Governo di allora (il Fascismo di Benito Mussolini) che, negli anni ’40, lavorava per rifornire la “macchina della guerra” e che , in un primo tempo, aveva solo quattro altiforni. E in quei primi anni nella fabbrica – lo dicono i sopravvissuti – i lavoratori si aiutavano come in una famiglia e c’era grande solidarietà fra gli operai. Si organizzavano persino, fra le maestranze e con la direzione, le feste a ballo e le gite sulla neve.
    Negli anni seguenti, con il boom economico e la produzione delle automobili in serie quegli altiforni sarebbero diventati dodici. Perché il mercato avrebbe sempre più richiesto quel piombo tetraetile (PT in sigla) che serviva per alzare gli ottani nella benzina super delle autovetture. E la Sloi sarebbe diventata rifornitrice di quel prodotto sul mercato mondiale.
    E sarebbe del tutto cambiata anche l’ organizzazione del lavoro in un ambiente che, nel frattempo, sarebbe diventato molto più inquinante e pericoloso. Un ambiente che la direzione avrebbe volutamente “diviso” per evitare forme organizzate di protesta e probabilmente il sorgere di uno spirito sindacale di classe.
    Ed è stato da allora che molti, in particolare operai, sono stati sottoposti ad un lavoro disumano, fra il caldo insopportabile di certi reparti e i fumi asfissianti, veleni che vaporizzavano nell’aria e poi ricadevano al suolo in forma di polvere. Gli ingredienti di questa produzione erano principalmente i lingotti di piombo, che venivano trattati con il sodio ed il cloruro di metile. Il prodotto finale (l’output) era il piombo tetraetile. Che, paradossalmente, aveva un sapore buono, di cioccolato, ma che era un “dolce” mortale.
    E contro questo pericolo c’era soltanto, per gli addetti, una semplice maschera che secondo i padroni avrebbe dovuto metterli al riparo da ogni conseguenza. E che invece non l’ha potuto evidentemente fare, se sono stati tanti poi gli ammalati e quindi i morti. Perché – come ha detto la signora Tosi, moglie di un operaio, in fondo morire sarebbe stato il meno. Quello che era il più difficile da sopportare era la sofferenza di veder stare male i propri mariti, il proprio padre, di vederli assaliti da disturbi quali lo stordimento, le turbe psicologiche e psicotiche. Che li cambiavano nel profondo del sistema nervoso e dalle quali molti, finiti anche al manicomio di Pergine, avrebbero ulteriormente sofferto e non ne sarebbero più usciti.
    Sono stati disturbi e malattie professionali denunciati anche, in una lettera del medico del lavoro della Sloi , ripresa poi dalla stampa, che assieme ad alcune circostanze fortuite (l’alluvione del ’66 e il nubifragio del ’78) avrebbero poi portato lo Stato a far chiudere la Sloi nel 1978.

    Mi ha colpito molto vedere, nel film, piangere gente di quasi settant’anni , nel ricordare certi fatti accaduti in quella fabbrica. La fabbrica del dolore e della morte. Da non dimenticare. Per nessuno.
    E che quei poveri senza-tetto, diseredati di oggi frequentano ancora la notte per trovare un riparo e senza probabilmente conoscerne la pericolosità (l’area è ancora tutta da disinquinare e si deve ancora provvedere a decidere il “come”).

    (Redatto in proprio da Aldo Polo
    Trento, 21 maggio 2010).

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