UN MIO CAPO
pubblicato da: Riccardo Lucatti - 29 Ottobre, 2012 @ 7:15 amDetto altrimenti: il mio terzo genitore, nel decimo anniversario della morte di una Persona alla quale devo molto: Ruggero Cengo Romano
Scrisse un libro, “Cengo e Sogno di Ternengo” (Ternengo, il loro paese d’origine, vicino a Biella). La vita delle famiglie dei suoi genitori, Tilde Sogno e Attilio Cengo. Rimasto orfano, fu cresciuto dalla zia, sposata Romano. Da qui il suo nome Ruggero Cengo Romano. Il libro fu pubblicato postumo. Chiesi di potere scrivere poche righe di prefazione. Mi fu concesso. Eccole:
Ho conosciuto Ruggero Cengo Romano quando ormai, da tempo, egli ricopriva a Torino un’importante carica (Direttore Centrale) alla Stet, la Finanziaria dell’IRI per l’elettronica e le telecomunicazioni, nella quale io ero stato assunto come dirigente.
Ho trascorso con lui cinque anni della mia vita lavorativa, anzi, cinque anni della mia vita. Infatti, dopo i miei genitori, è stata la Persona dalla quale ho maggiormente imparato ed alla quale maggiormente devo, sotto ogni profilo.
Più lungo che magro, capelli a spazzola, abiti molto tradizionali, automobile anch’essa tradizionale (perchè mai hanno smesso di produrre la 1100?), leggermente curvo in avanti, un po’ per l’abitudine al lavoro d’ufficio, molto più per la sua premura di assecondare linterlocutore.
Al centro di una scrivania ad anfiteatro stracarica di carte, come pure stracariche erano quasi tutte le sedie del suo studio e parte del pavimento, annotava via via su di un taccuino (che egli chiamava il panonto) ogni contatto telefonico e personale della giornata, salvo poi rielaborare, approfondire ed inquadrare ogni argomento. Di computer, neanche a parlarne. Una calcolatrice a mano di oltre quarant’anni andava benissimo. Matita nel taschino della giacca, gomma e temperamatite sulla scrivania.
Sempre molto serio in tutte le circostanze che richiedevano serietàò , sapeva anche cogliere ed apprezzare i lati umoristici della vita. Parco nei consumi, nel vitto e nelle bevande: riso ben cotto e acqua con una fetta di limone.
Tutti lo cercavano, tutti sentivano il bisogno del suo apporto professionale. Egli dava udienza a tutti, salvo occuparsi dei problemi in ordine inverso, trattenendo quindi presso di sè, in attesa, i primi interlocutori, quasi per paura di perderli senza aver dato loro la risposta che si aspettavano.
Era credente e viveva la sua Fede in modo discreto, non badando a sedersi in Chiesa in ordine gerarchico (con il che spiazzava il 90% dei colleghi intervenuti al Precetto Pasquale). La sua Fede era visibile attraverso l’attenzione che dedicava agli Altri, con la A maiuscola, ai loro problemi di lavoro e personali. Se gli chiedevi qualcosa, non ti dava un consiglio, ti dava un aiuto. E non demordeva sino a quando questo suo impegno non avesse portato a risultati concreti.
Altra sua caratteristica era non strumentalizzare le persone, comunicare loro la propria esperienza ed il proprio sapere, farle crescere professionalmente.
Comprendeva, anche se non approvava, la malvagità. Non sopportava l’incoerenza.
Aveva sofferto molto: padre morto combattendo in Africa, madre uccisa dalla guerra in Italia. Da allora era vissuto con gli zii e poi con la sola zia, che chiamava mamma. Comprendeva e condivideva la sofferenza altrui.
Taluno non lo sopportava completamente, per quel suo carattere all’apparenza scontroso, burbero, rigido. Tuttavia forse la ragione di tali riserve era un’altra: Ruggero, come uomo di principi, come professionista, come uomo di cultura e soprattutto come Uomo, era inarrivabile.
Fra i tanti episodi, uno. A pochi mesi dalla mia assunzione, mi trovai ad assistere ad un colloquio fra Ruggero, alcuni suoi colleghi di Torino e nostri superiori di Roma. Non ricordo chi mi chiese come mi trovassi con un simile capo. Io risposi d’istinto, semplicemente con la verità: con un tale maestro, non potevo che ritenermi fortunato. Ma il fatto che voglio segnalare è tuttavia un altro e cioè la reazione di Ruggero a queste mie parole: gli si illuminarono gli occhi di felicità. Io, che non avrei mai creduto di poter essere già così tanto considerato da lui, io che ero un dirigentino neo assunto, gli fui grato per l’apprezzamento che aveva mostrato di riservare al mio giudizio.
Mia figlia Valentina si sposata. Gli abbiamo mandato la partecipazione, Ruggero ha subito telefonato. Io ero fuori casa. Mia moglie Maria Teresa gli ha detto che lo avrei richiamato. L’ho fatto. Troppo tardi. E’ come se avessi mancato l’ultimo saluto ad un genitore.
Ruggero ha lasciato una ricca eredità : al Comune ed alla Parrocchia di Ternengo tutti i sui risparmi. Inoltre, al Comune, che gli ha intitolato una piazza, tutti i suoi libri, che sono andati a costituire una nuova, ricca, preziosa biblioteca comunale. A me, la ricchezza del suo insegnamento, del suo ricordo e il dolore di averlo perso quando aveva solo 68 anni, l’età che ho io oggi.
Trento, 29 ottobre 2012