AMARCORD L’IRAN 49 ANNI FA.

pubblicato da: Riccardo Lucatti - 2 Ottobre, 2024 @ 10:25 am

Ero trentunenne. Trascorsi due periodi a Teheran per offrire a quel governo la fornitura di piccole centraline solari prodotte da una grande industria italiana, impianti dotati di una mini parabola da orientarsi a mano, da collocarsi presso gli abitanti dei deserti per fornire loro l’energia per estrarre l’acqua dal sottosuolo.

C’era lo Scia Reza Palhavi. L’Iran era compresso da molte forze: un forte inurbamento; i settecento km di confini con la Russia; l’integralismo islamico; la corruzione delle istituzioni pubbliche; la natura del rapporto con gli USA; le altre pressioni esterne; il proprio regime dittatoriale.

Il grande sviluppo urbanistico della capitale. In pieno centro di Teheran moltissimi cantieri edili aperti dal lavoro di muratori che,  giunti a Teheran dai deserti, venivano trattati in modo disumano (un poco come i nostri meridionali a Torino, negli anni ’50): il cemento ed i mattoni si portavano ai piani alti delle costruzioni a piedi, in secchi e sacchi a spalla (in un paese che già  allora era dotato di moderni cacciabombardieri USA); la notte i muratori dormivano a cielo aperto, nello scavo, su cartoni stesi per  terra ed uno di loro, a turno, montava di guardia per evitare che i passanti lungo gli adiacenti marciapiedi si divertissero a svegliare gli operai dormienti con il lancio di sassolini, operai che, “svegliatisi” confrontavano il loro stato con quello di noi ospitati negli Hotel a cinque stelle, a champagne e ad aria condizionata! Da qui un dilagante “comunismo” sommerso che poi virò in integralismo islamico.

L’integralismo islamico si sentiva sacrificato sull’altare della modernizzazione. Il velo? Lo portavano liberamente le donne che lo volevano. Le altre no. Le altre avevano iniziato a ribellarsi ai maschi (padre, fratello, marito) e questo ai maschi non andava bene. Ora … se qualcuno o qualcuna si ribella, se dall’esterno arrivano segnali e/o aiuti, i futuri Guardiani della Rivoluzione avrebbero ristabilito l’ “ordine” …

La corruzione. Ai massimi livelli. La prassi era: acquistare dall’estero, incassare mazzette e poi non curarsi di utilizzare il cemento ammassato sulle banchine del porto di Bandar Abbas che nel frattempo era diventato una montagna di granito; e nemmeno delle centinaia di computer di fabbricazione estera che riempivano, cellofanati e inutilizzati, i venti piani (o trenta?) del grattacielo del Ministero dell’Agricoltura.

Il rapporto con gli USA, all’epoca inizialmente buono: si veda la fornitura dei cacciabombardieri che però non comprendeva le parti di ricambio strategiche (indispensabili e insostituibili) che restavano in mano USA. Poi sempre più deteriorato (da “USA e jet” a “usa e getta”) e la Russia e l’Iran pronti a soffiare sul fuoco per farsi spazio.

Gli altri “influenti” esteri: l’Arabia Saudita, paese sunnita, che vuole combattere l’Iran sciita; Israele, che vuole difendersi dall’ “avversario” Iran.  

Il proprio regime dittatoriale: lo trovate egregiamente descritto in internet.

Noi europei … noi speriamo che ce la caviamo con le nostre commesse.

La mia società (“Parsital SpA” ) era a maggioranza italiana e minoranza iraniana. I soci iraniani erano di origine ebraica (in Iran c’erano tre ceppi: locale, ariana – “Noi non siamo arabi!” dicevano – e il saluto era salam aleku; di origine turca, e il saluto era salamelek; di origine ebraica, e il saluto era shalom) i quali prevedevano che la situazione politica avrebbe subito una “svolta pesante” entro cinque anni. L’ambasciatore italiano Luigi Cottafavi mi fece i complimenti in quanto la mia era la prima SpA mista italo iraniana a maggioranza italiana. Ed io? Io contatti, conoscenze, incontri, visite a uffici, ministeri, ministri, parenti dello Scià: tutto girava e girava e girava al punto che sembrava il Gioco dell’Oca: ritornare al punto di partenza perchè mancava un tassello, quello che io non avevo voluto/saputo considerare: l’  “incentivazione” al sistema. In ogni caso per me, giovane trentunenne, fu un’esperienza molto interessante e formativa.

A parte che mi concessi anche della buona musica andando all’opera (italiana) al teatro Roudaki Hall: Direttore (di tutto: dell’orchestra, dei cantanti, del coro e cantante “basso” lui stesso) il maestro genovese (come me) Michele Cazzato; soprano l’ottima Luciana Serra (poi arrivata alla Scala! Bravissima Luciana!): ottima esecuzione de L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti!

E oggi nel 2024 ? Cosa penso oggi? Io temo che purtroppo la legittima ribellione del popolo iraniano alla fine abbia generato guai ancora maggiori di quelli che voleva combattere: in dialetto trentino di dice che ‘l tacon l’è sta pezo del bus, la toppa è stata peggio del buco che vuole riparare.

TEHERAN

Teheran, una città molto estesa, in genere costruzioni non molto elevate (a causa del rischio sismico), su una “pianura leggermente in discesa”, dai 2000 metri della residenza dello Scià, ai piedi della catena montuosa di 6000 metri, innevata anche in estate, che la divideva dal Mar Caspio, fino alle poche centinaia di metri di altitudine della down town dove si trovava il bazaar. A nord, alberi di rose come fossero di ciliegie, data la dimensione. A sud, il caldo. Gli hotel: da sud a nord la qualità ed il prezzo cresceva.

La città era attraversata, da nord verso sud, da molti piccoli ma impetuosi rivoletti d’acqua “multiuso”. Man mano che si scendeva, qua e là bidoni metallici contenenti acqua pretesa potabile alla quale si dissetava il “popolino”, mediante una tazza comune assicurata al bidone da una catenella. Noi no. Noi turisti per affari si stava negli hotel all’aria condizionata. Erano i nostri “uffici”, dotati di (vecchi) apparecchi telescriventi azionabili solo dagli addetti (quando c’erano!) con tempi biblici.

Per muoversi in città, i taxi o più spesso le auto dei passanti ai quali gridavi la tua meta: se era compatibile con la sua destinazione, l’automobilista si fermava e ti caricava e ti trovavi insieme ad altri sconosciuti compagni di viaggio. Traffico caotico: velocità media commerciale delle auto in città : 2 kmh. Per chiedere all’autista di accelerare bastava dire  “Buro, buro, you Fittipaldi!” ; per farlo rallentare “iavasc, iavasc”. Un paio di volte: squadre di poliziotti in motocicletta, traffico fermato, strade liberate e presidiate dalla polizia, passa lo Scià.

Una bella ragazza prosperosa: con ammirazione dai i maschi locali veniva definita labagnat  che letteralmente significa latteria.

I controlli della polizia (politica, la  SAVAK): fui avvicinato in hotel da un giovanotto che parlava ottimo italiano (si era laureato in Italia) il quale mi chiese le ragioni della mia permanenza in Iran: affari, impiantistica … ok, buon lavoro.

Il lavoro e lo svago. Cercai il migliore commercialista per organizzare il pagamento delle eventuali imposte locali: mi disse che occorreva organizzare il non-pagamento delle imposte! Il lavoro: anche il sabato. Solo la domenica ci si fermava … per fare cosa? Ad esempio un volo ad Esfahan; la visita al Tesoro dello Scià; una visita al bazaar; una gita in auto fuori città (nel deserto).

Uno scippo evitato. Tentato ai danni di un mio collega italiano. Gli si affianca un’auto e in inglese il passeggero gli chiede quanto egli debba pagare all’autista per un certo tragitto. Fa finta di non capire la risposta e chiede che gli siano mostrate le banconote. Il mio amico sta per farlo. Io gli grido di fare un passo indietro. L’auto fugge via.

I ristoranti. Spesso andavamo al ristorante del Teatro Roudaki, ne ricordo il prezzo: pranzo a base di caviale e champagne, l’equivalente di 5000 lire. Ma spesso non pagavamo nulla perchè avevamo fatto amicizia con il cameriere (spagnolo) al quale avevamo regalato un paio di blue jeans e il nostro conto – su sua iniziativa – veniva “diluito” all’interno del  conto del mega pranzo sociale di turno (i medici di Teheran, gli ingegneri di Teheran, etc.). Ah …  questi italiani!

Il caldo. Molto ma secco, all’ombra di stava abbastanza bene, la sole no. L’aria degli hotel era sempre molto condizionata.

Il bazaar. La cosa più vera che vidi. Un mercato molto esteso, stradine ricoperte, un odore di olio bruciato (quello delle lampade), illuminazione elettrica abbagliante da semplici lampadine appese a fili elettrici. Improvvisamente sento un grido: “Paisà, paisà!” Mi fermo: possibile? Che qui ci sia un napoletano e che per di più mi abbia riconosciuto come italiano e mi chiami in quel modo? Mi giro: si trattava di un venditore di banane, a cinque (pai) sa (centesimi di rial) cadauna!

Si era nel 1975. I miei soci iraniani, parlando molto riservatamente, davano al regime solo altri cinque anni di vita al massimo (lo Scià poi  sarebbe caduto nel 1978), e si lamentavano con i propri genitori che li avevano mandati a laurearsi negli USA: giudicavano infatti quel periodo una perdita di tempo rispetto alla corsa all’arricchimento che stavano facendo.

Considerazione finale. Tutte le maggiori imprese mondiali e italiane erano presenti in Iran, anch’esse come i miei soci privati iraniani per partecipare alla corsa all’arricchimento, reso possibile dall’elevatissimo grado della corruzione. Un esempio, banale ma significativo: poco sopra, parlando dei ristoranti, ho ricordato il dono di un paio di blue jeans ad un cameriere. L’importazione di quei capi era vietata: poi, improvvisamente, per una settimana tale divieto cessava (per legge) e nel paese entravano alcuni TIR carichi di blue jeans che poi venivano rivenduti a prezzi molto elevati in negozi gestiti dalle mogli di alti funzionari di stato.

Come finì la mia avventura imprenditoriale iraniana? Ben prima della rivoluzione, ricevetti l’offerta della dirigenza in una grande SpA finanziaria pubblica italiana: avevo famiglia e non ebbi il coraggio di rinunciare al certo per l’incerto e smisi (in tempo, per mia fortuna!) di fare l’imprenditore italo-iraniano.