UNA REGATA, UN AMICO
pubblicato da: Riccardo Lucatti - 30 Agosto, 2019 @ 1:56 pmDetto altrimenti: con un amico scomparso (post 3649)
Questo è un postaltrui, scritto da mio figlio Edoardo un anno fa
Inizia
Oggi è morto un mio compagno di regata. In realtà insieme abbiamo fatto una sola regata ma, insomma, per quella regata è stato il mio compagno. Un grande compagno. Parliamo, almeno, di 23 anni fa, ma lo ricordo benissimo. Sono salito sulla sua barca all’ultimo minuto, perché era rimasto da solo e non se la sentiva di affrontare la regata sociale, quella del Circolo, senza manco un elemento di supporto. Fu mio padre, che a bordo del suo Fun stava già impartendo ordini marziali a me e a tutti gli altri due dell’equipaggio, a dirmi che potevo andare con lui: “Noi ce la caviamo anche in tre”, sentenziò, e subito prese a delegare le mie mansioni di volantista a qualcun altro, per poi avocarsele – immagino – nel giro di due furenti minuti. Ricordo che erano circa le 12 e il vento da sud, la famosa Ora, aveva già cominciato a battere sulla sponda trentina del Garda.
Mentre camminavo veloce sul molo verso il mio nuovo compagno, controllavo di avere con me tutto il necessario: soprattutto gli occhiali e il berretto ben legati e i guantini per evitare che le scotte mi aprissero le mani come prugne sfatte. Mi presentai vagamente sull’attenti perché venivo da una scuola di vela, quella di mio padre, assolutamente militare:durante le regate, per dire, ero abituato a osservare un religioso silenzio, parlavo solo se interpellato e per lo stretto indispensabile, eseguivo al secondo gli ordini ricevuti e mi guardavo intorno in continuazione per capire se e cosa fare e chi arrivasse, soprattutto, dal lato cui era dovuto dare la precedenza. E se intorno non c’era nessuno si doveva stare zitti lo stesso, perché così sentivi il rumore delle vele e le guardavi con più attenzione e capivi se c’era un tesabase da lascare di un centimetro o la randa che lungo l’albero ti rifiutava il vento rigonfiandosi impercettibilmente dal lato sbagliato. “Se cazzeggi queste cose non le vedi”, diceva mio padre.
Fu con grande sorpresa, quindi, che mi resi conto dell’atteggiamento diametralmente opposto del mio nuovo capitano. Mentre tutti si affrettavano a passare in rassegna le vele e ad uscire dal porto per essere subito sul campo di regata, lui se ne stava seduto nel pozzetto, vicino al timone, con la barca ancora saldamente ormeggiata, a trastullarsi con alcune piccole cime. “Queste le mettiamo via, che fanno casino” mi disse salutandomi, e poi aggiunse: “Mettiti comodo, dai”. Mettiti comodo, capite? Mi disse così, mettiti comodo. Il vento raggiungeva i 20 nodi e il lago cominciava a imbiancarsi e a diventare cattivo, ma lui mi diceva di mettermi comodo! E io che a mala pena conoscevo il significato di quelle parole … “Tranquillo il papà oggi?” Mi chiese sorridendo mentre uscivamo dal porto con il vento in prua e la barca, ancora a motore, che sbatteva sull’acqua come lo schiaffo di Dio ai popoli peccatori. “E’ tranquillo papà oggi?” Mi chiede. “Insomma è’ bravo eh il papà. Più bravo di me. Ma insomma dai… – Cosa? – Niente, oggi lo battiamo, tranquillo”.
Lo disse così, con la voce che si riserva alle battute di contorno, senza grande enfasi. Io ero un po’ stranito e allora mi misi a fare ordine tra le scotte e le drizze, che alcune si accavallavano un po’ troppo; liberai un paio di carrelli di scorrimento che sarebbero tornati utili in virata e mi rimisi a sedere. Lui annuì sorridendomi, più per farmi contento che altro. Probabilmente avrebbe tenuto tutto incasinato e vaffanculo. Ma quello che proprio non capivo era come mai, a pochi minuti dal via, si tenesse così lontano dalla linea di partenza. Tutte le altre barche, come sempre, si affollavano su quel segmento immaginario, attraversandolo di qua e di là, cercando un posto al sole, sgomitando come pazzi. Forse della vela si ha una visione un po’ edulcorata ma vi assicuro che sulla linea di partenza di una regata si sentono cose, da una barca all’altra, al cui confronto campi di calcio e curve degli stadi sono collegi di educande: scafi che superano la tonnellata si sfiorano, si toccano, a volte si rompono, si passano – in ogni caso – a pochi millimetri, mentre il vento aumenta e il casino prodotto da vele, alberi e voci ti scartavetra il cervello, elettrificando l’aria e tutti i tuoi gesti. Anzi, tutti i loro gesti. Perché noi ce ne stavamo a un centinaio di metri di distanza, impegnati in un giro più largo e solitario. “Tanto ho preso il tempo – diceva il mio capitano – quando arriviamo lì suonano la partenza e siamo giusti, inutile andarci ora per infilarci nel casino”. Io tacevo, perché l’equipaggio – se non è interpellato – tace – o no? – “Bravo, adesso fai una cosa” Cosa? “Vai di sotto e prendi qualcosa da mangiare, che ho fame. Vedi un po’ cosa c’è”. Io andai, signori. Andai, scelsi con calma le cibarie e tornai di sopra, porgendogli qualcosa (del formaggio, non ricordo). Solo a quel punto mi resi conto che mancava veramente poco, alcune decine di secondi. Là davanti infuriava il finimondo, la gente si gridava cose orribili e le barche sembravano squali pronti a divorarsi a vicenda. La nostra no, sembrava una foca. Ma si avvicinava, a suo modo, alla linea di partenza. Ebbene, io non so – veramente – come sia possibile, ma sta di fatto che siamo partiti fra i primi quattro, perfetti come da manuale. Sopravento, mure a dritta, attaccati alla barca giuria e perfino Dio, su quel primo bordo di bolina, avrebbe dovuto darci la precedenza. “Cazzo siamo primi!” Urlai infoiatissimo mentre già guardavo il fiocco per capire come coccolarlo e farlo rendere di più. “Forse terzi o quarti” Corresse lui mentre un’onda picchiò contro lo scafo e mi lavò la faccia. “Buono ‘sto formaggio vero? Prendine ancora va’”. E insomma io andavo su e giù dalla cambusa, prendevo da bere e da mangiare, facevo anche le cose della regata, intendiamoci, ma nei ritagli, ecco. E a quella prima boa ci arrivammo come gli dei, davanti a noi – al massimo – cinque imbarcazioni, tutte molto più veloci e doverosamente in vantaggio. A quel punto cominciammo a parlare di tutto, di calcio, della scuola, della vela, sì anche della vela però prendila tranquillamente mi raccomando, non come il papà, e nel dirlo indicava dietro, visto che il papà – assieme al grosso delle altre barche bestemmianti – era rimasto laggiù, nel gruppo, una sorta di macchia rombante di vele che ci inseguiva sputando bile dappertutto. Alla fine ci sorpassarono in molti, diciamolo francamente. Non mio padre, però.
E insomma facemmo la nostra porca figura e qualcuno, all’arrivo, ci fece addirittura i complimenti per la partenza e per quella prima gloriosissima boa di bolina, passata da gran signori a poche lunghezze da quelli che facevano sul serio. “Ma mangiavate, cazzo, su quella bolina”? Mi avrebbe chiesto più tardi uno della giuria £ …sembrava che stavate lì a mangiare e bere”. Prima di sbarcare ci salutammo e lo ringraziai davvero, come fino a quel momento – in vita mia – avevo ringraziato poche, pochissime persone. Grazie. “Di cosa? Grazie a te” mi rispose. E poi sorrise. Sorrise contento, come se avessimo vinto davvero. Perché un po’ era così. Ciao Guido, tante prime boe.
Finisce
Grazie, Edoardo, per avere ricordato in questo modo il nostro comune amico Guido Parente.