IN MEMORIA DI FABRIZIO DE ANDRE’
pubblicato da: Riccardo Lucatti - 22 Gennaio, 2019 @ 7:03 pm
Detto altrimenti: riprendono i post “Liguri” (post 3496)
(questo è un LP – Long Post)
Per chi si fosse messo in ascolto solo adesso: sto pubblicando una serie di post sulla Terra di Fabrizio De Andrè, la Liguria (dove sono nato) riportando alcune poesiole, mie e altrui, e alcuni testi. La prima è mia, è “leggera”, parla di un Bar affacciato sul Corso Italia, la splendida strada a nastro a mare che dalla Foce (Fiera del Mare) si spinge fino a Boccadasse: alcuni km di luce, mare, sole. Il Baretto è un po’ scic, lo ammetto, ma non esclude nessuno: rappresenta una parte di Genova (esiste anche quella), la Genova Bene.
AL BARETTO
Luce distesa di mare / salata al gusto di brezza / modella agavi e pini / e l’incedere del cameriere / alla gente in attesa. / Biondi profili abbronzati / a sedere / eleganti di grigio / e di blu navale / Genova bene / sorseggia un bicchiere / di sole invernale / che sa di pitosforo. / Un cane / di razza anche lui / volge lo sguardo annoiato / all’auto che attende il semaforo / e ai plananti gabbiani d’acciaio. / Palme africane danzanti / e lampioni / tengon sospeso / il cabaret ondeggiante del cielo / incerte se versare l’azzurro / sulla terra / sul mare / o soltanto su una lucertola / servizio compreso.
I plananti gabbiano d’acciaio … gli aeroplani che stanno planando verso l’aeroporto Cristoforo Colombo, 20 km a ovest dal Baretto. Corso Italia a est termina con la caletta di Boccadasse, Bucca d’ase, Bocca d’asino tanto quell’insenatura richiama l’animale. Ed ecco Boccadasse (questa non è mia, bensì di mio figlio Edoardo, che scrisse diciottenne, cioè 20 anni fa (è così bella che la riporto con i singoli “ a capo”):
BOCCADASSE
Degli anziani pescatori e di reti più ruvide,
appress’al varco uman
de l’abisso,
sottile serba l’eco antica
Boccadasse, e quell’innomato odor
d’anni votati alla pira.
Ti vidi in grazia di neve,
nell’abito scomodo pei tetti tuoi sorpresi.
Ti vidi quando i sassi balzellavo
sul blu che t’appaga.
E ti vedo adesso, anfiteatro sul tardo mover
de’ gozzi,
ti vedo.
Son l’alieno.
son io il mondo che,
pria del tempo,
pur fu.
Al freddo bagno di luce,
seguo l’onde a macchia fuggir
via via più scure;
d’intorno, piangono secche sorti
quei legni traditi, or di raminghi felini
un soppalco.
Nel volger le spalle
al caro fraseggio de l’acque
saluto il guscio d’origine,
ma ‘l ligure mar a sua grand’arte
queta dei ciottoli gli spigoli,
e ‘l mio passo fa mesto.
Vi è piaciuta? Un po’ malinconica, se vogliamo, ma bellissima (i figli sono piezz ‘e core, che vulite …). Ed allora ecco un’altra Boccadasse, questa volta di nuovo mia ed in prosa:
Boccadasse
A fine settembre alle sei di mattina è ancora buio. Non siamo in molti con cane e guinzaglio in Corso Italia. D’altra parte Ilios, un bel dalmata di tre anni dal carattere dolcissimo, aveva ormai iniziato a passeggiare discretamente per il corridoio sino alla porta di casa, facendo tintinnare la sua medaglietta in modo inequivocabile…
Dal muretto della piazzola dietro la chiesa parrocchiale ci affacciamo sul porticciolo di Boccadasse. Il mare è calmo. Una leggera brezza di terra lo scurisce d’un ammaliante blu notte. Al largo qualche lucina brilla sulla propria barca, al pari delle ultime stelle non ancora cancellate dall’alba. Il profilo del Monte Fasce, la curva della costa da Quarto a Camogli e, di fronte, il Promontorio di Portofino gli fanno da cornice. Abbassiamo lo sguardo ed in silenzio osserviamo i movimenti a loro volta silenti, quasi sacri e rituali di alcuni vecchi pescatori, pescatori vecchi. Uno o due di essi, a turno, afferrano il proprio gozzo, lo trascinano sullo scalo, ne legano una estremità alla carrucola ancorata al muretto e quindi, lascando la cima, con una spinta lo fanno scivolare in acqua. Infine, pongono a lato il carrellino, che resterà a testimoniare che una barca è uscita in mare. Tutto ha una sua funzione. Il gozzo si adagia sull’acqua, accomodandosi con un lieve rollìo, soddisfatto al pari di una signora che finalmente abbia trovato sul tram un posto libero dove sedersi. Gli scogli sono vicini, ma i pescatori hanno stipulato un accordo con quel poco di mare di cui dispongono: loro lo amano e lo rispettano, ed egli frena gli scafi e li protegge dagli urti. Alcuni procedono a remi. Dopo averli fissati sugli scalmi remano eretti, volto in avanti, appoggiandosi su di essi come gondolieri veneziani. Non hanno fretta, ma non sprecano tempo in movimenti inutili. Infatti in pochi minuti il gozzo è al largo, intento ad assecondare l’andamento delle onde, a recuperare reti, nasse, palamiti, o a calare bollentini. Altri sono dotati di motore. Vecchi diesel entrobordo, che stentano un po’ a mettersi in moto ed all’inizio scoppiettano lanciando anelli di fumo rotondi e regolari, come se anch’essi fumassero il toscano o la pipa al pari dei loro armatori. E se alcuni escono, altri rientrano, accompagnati dal volo dei gabbiani e dagli sguardi attenti dei gatti.
Più in alto, in Corso Italia, il traffico cittadino si è già risvegliato ma sulla spiaggia non se ne avverte il rumore. Qui il tempo si è veramente fermato: per il grande silenzio, per gli spazi ristretti e preziosi, per l’architettura delle casette marinare dai colori a pastello e soprattutto per i gesti e la vita di questa umanità sopravvissuta al progresso, fatta di pescatori, di vecchiette sedute sull’uscio di casa, e perché no, anche di gatti interessati all’andamento del tempo e della pesca, marinai e pescatori anch’essi.
Sono parte di questo incantesimo. Mi accosto alle barche, le guardo come se mi aspettassi una loro parola, un cenno di saluto. Mi avvicino ai pescatori. Non parlo. Li osservo, grato che accettino la mia presenza, che non si chiedano che cosa voglio. Ascolto il loro dialetto, che tanti anni fa era anche il mio; mi godo la musica di quelle poche parole, delle cose semplici che raccontano. Nelle voci, nei gesti, negli sguardi credo di potere cogliere tutta la loro vita. Ed invece come posso sapere quanto hanno vissuto, gioito, sofferto, pescato, amato, sperato, navigato? La luce aumenta. E con lei arriva il profumo della focaccia appena sfornata. Ne compero un pezzo, avvolto nella carta da pane, e lo mangio con gusto, bevendoci sopra il sapore del mare. Risalgo la scaletta. Entro nella chiesa, adorna di modelli di velieri sospesi fra le colonne, e prego.
Cara Boccadasse, cari amici, tornerò a trovarvi, la prossima volta dal mare, a vela, all’alba, con il mio Fun, lo prometto.
Alla prossima!