UNGARETTI CENT’ANNI DOPO
pubblicato da: Riccardo Lucatti - 9 Marzo, 2017 @ 6:11 amDetto altrimenti: un postaltrui, ovvero di Alfonso Masi      (post 2665)
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Le lettrici ed i lettori più assidui sanno che questo mio è un open blog, ovvero un luogo aperto e disponibile a ricevere e pubblicare i postaltrui. Ed allora eccone uno, bellissimo, dell’amico Alfonso Masi sul poeta Giuseppe Ungaretti.
Inizia
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A cento anni di distanza dai mesi di dicembre 1916 – gennaio 1917 il poeta Giuseppe Ungaretti meritava un particolare ricordo di due anniversari che al contrario la stampa locale ha totalmente dimenticato: infatti nel dicembre del 1916 veniva pubblicata la sua prima raccolta, Il Porto Sepolto che per lo stesso autore fu un dono natalizio inaspettato.
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La pubblicazione si deve all’incontro con il “gentile Ettore Serraâ€: così Ungaretti definisce il giovane tenente amante della poesia e lettore delle riviste “La Voce†e “Lacerbaâ€. Il reggimento del poeta, durante la primavera del 1916, era accampato nelle retrovie a Versa, dopo un mese e mezzo trascorso in trincea sul Carso. Serra raccontò di aver notato quel fante dal portamento trascurato e dalla divisa in disordine. conosciutone il cognome, gli chiese se fosse l’autore di alcune poesie apparse sulla rivista “Lacerbaâ€. La risposta affermativa fu l’inizio di un’amicizia umana e intellettuale: al tenente, il soldato semplice Ungaretti aveva letto i gualciti foglietti contenenti una serie di brevi testi composti durante la vita in trincea, conservati gelosamente nel tascapane e non destinati ad alcun pubblico. Serra ne era rimasto piacevolmente affascinato, aveva portato con sé il tascapane e ordinato quei rimasugli di carta, insieme ad altri ricevuti nei mesi seguenti. Infine il 16 dicembre 1916 aveva portato al poeta alcune delle 80 copie stampate a Udine presso lo Stabilimento Tipografico Friulano.
Da parte di nessuno dei due vi era la consapevolezza che fosse stata stampata una raccolta che avrebbe segnato una svolta decisiva nella poesia italiana. Fu Papini a rendersi conto dell’importanza di quella piccola silloge che recensì sul “Resto del Carlino†il 4 febbraio 1917 giudicandole “le più care e sollevate poesie che abbia dato la guerra italianaâ€.
Il fante Ungaretti era giunto in trincea sul Carso nei giorni precedenti il Natale 1915 e subito aveva iniziato a scrivere poesie, come ricorderà in seguito:
“Incomincio Il Porto Sepolto dal primo giorno della mia vita in trincea e quel giorno era il giorno di Natale 1915 e io ero sul Carso, sul Monte S. Michele: ho passato quella notte coricato nel fango, di faccia al nemico che stava più in alto di noi ed era cento volte meglio armato di noiâ€.
Notiamo, en passant, qualche discrepanza nei ricordi di Ungaretti perché tale testimonianza sul  giorno di Natale non collima con la poesia Veglia che riporta la data del 23 dicembre 1915. Nella dura vita di trincea, in presenza della morte, ogni retorica futurista della “guerra sola igiene del mondo†scompariva e nascevano trentatré poesie, ciascuna corredata non solo dal titolo, ma anche da una data e dall’indicazione della località (Locvizza, Mariano, Cima Quattro, Cotici, Valloncello dell’Albero Isolato, Devetachi), quasi un diario e una geografia dei luoghi in cui il fante Ungaretti veniva spostato: dalla prima linea in trincea sul Carso alle retrovie durante i periodi di riposo. Si tratta di liriche, brevi, alle volte brevissime, scritte con linguaggio corrente, privo di stile aulico, privo della prosodia tradizionale e che spezza i versi a favore di una metrica libera che a volte giunge a versi contenenti una sola parola. Così a posteriori Ungaretti giustifica il suo stile:
“Nella trincea, nella necessità di dire rapidamente, perché il tempo non poteva aspettare, e di dire con precisione e tutto come un testamento, e di dirlo, poiché si trattava di poesia, armoniosamente, in tali condizioni estreme, trovai senza cercarla quella mia forma di allora nella quale il più che mi fosse possibile volli resa intensa di sensi la parola intercalata di lunghi silenziâ€.
Anche in questo caso notiamo che la spiegazione stilistica fornita dal poeta non è esatta perché anche le poesie precedenti la Grande Guerra sono improntate al medesimo stile e prive anch’esse di segni di interpunzione.
Ogni parola, ogni lirica reca l’impronta di un’emozione particolare, precisa, viva e penetrante. Ecco, in Veglia, le immagini del
 compagno / massacrato / con la sua bocca / digrignata / volta al plenilunio,
la cui visione spinge Ungaretti a scrivere “lettere piene d’amoreâ€. Ecco San Martino del Carso, il paese distrutto e paragonato alla propria situazione interiore:
Di queste case / non è rimasto / che qualche / brandello di muro. / Di tanti / che mi corrispondevano / non è rimasto / neppure tanto. / Ma nel cuore / nessuna croce manca. / E’ il mio cuore / il paese più straziato.
Ecco il suo pianto interiore simile a una pietra del Carso:
Come questa pietra / del S. Michele / così fredda / così dura / così prosciugata / così refrattaria / così totalmente / disanimata./ Come questa pietra / è il mio pianto / che non si vede. / La morte / si sconta / vivendo.
Ecco le trincee dentro cui si nascondono i soldati:
Assisto la notte violentata. / L’aria è crivellata / come una trina / dalle schioppettate / degli uomini / ritratti / nelle trincee / come le lumache nel loro guscio.
A volte poteva capitare di dover marciare di notte e incontrare altri soldati.
Era usanza chiedere “Di che reggimento siete?â€; e il poeta, provato dalla guerra, si sente legato da amore fraterno a tutti gli altri soldati, così da ritenerli e chiamarli fratelli:
Di che reggimento siete / fratelli./ Parola tremante / nella notte. / Foglia appena nata / nell’aria spasimante / involontaria rivolta / dell’uomo presente alla sua / fragilità ./  Fratelli.
L’unica felicità in mezzo a tanto tormento e desolazione, provocati dalla guerra, è sentirsi in armonia con l’universo e ripassare le epoche della propria esistenza con riferimento ai fiumi conosciuti durante la vita: Serchio, Nilo, Senna e Isonzo. Nasce così la lirica “I fiumiâ€, la più lunga ed elaborata dell’intera silloge; è stata definita la più grande poesia della guerra italiana, ma paradossalmente la guerra è messa fra parentesi e appare soltanto nel ricordare i “panni sudici di guerraâ€.
Il ricordo della propria giovinezza a Parigi aveva già in precedenza fatto tornare in mente al poeta l’amico Moammed Sceab, morto suicida e che con lui condivideva lo stesso albergo in “Rue des Carmes/ appassito vicolo in discesaâ€.
Sempre nel dicembre 1916 il poeta andò in licenza a Napoli in casa dell’amico Gherardo Marone:
“Ero andato a Napoli dove c’era Marone ed ero suo ospite. Mi aveva accolto a casa sua e naturalmente mi aveva dato un letto magnifico dove avrei dovuto passare la notte, ma io non riuscivo a dormire nel letto perché ero abituato a dormire per terra; non potendo dormire mi sono messo giù, nel pavimento, a dormire. Questo per alcune notti, poi, pian pianino, mi sono riabituato al letto, per tornare davvero a riabituarmi alla terraâ€.
E lì a Napoli, il 26 dicembre, nasce la lirica “Nataleâ€:
Non ho voglia / di tuffarmi/ in un gomitolo / di strade. / Ho tanta / stanchezza/ sulle spalle. / Lasciatemi così / come una / cosa / posata / in un / angolo/ e dimenticata. / Qui / non si sente/ altro/ che il caldo buono. / Sto / con le quattro/ capriole / di fumo/ del focolare.
E veniamo al secondo anniversario: nel mese di gennaio 1917, durante un periodo di riposo nelle retrovie a Santa Maria La Longa, Ungaretti compose tre brevi testi poetici: Solitudine, Dormire e Mattina, il più breve di tutta la propria opera, in cui i due versi che lo compongono racchiudono solo quattro parole e per di più due sono monosillabi, per di più apostrofati e quindi ridotti ciascuno ad una lettera alfabetica: “M’illumino/ d’immensoâ€. L’attività poetica proseguirà poi per l’intero periodo bellico e sfocerà nella raccolta del 1919 Allegria di naufragi, il cui ossimoro sparirà nel 1931 riducendo il titolo a L’allegria, e confermando così la fama poetica del multiforme Ungaretti, docile fibra dell’universo, uomo di pena, nomade d’amore, stagno di buio, lupo di mare, ubriaco di universo, allodola assetata, vecchio capitano e infine vecchissimo ossesso.
 Finisce
 Grazie, grazie Alfonso, per questo tuo – ormai anche nostro – bellissimo ricordo!
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