UN’ORCHESTRA, UN’IMPRESA

pubblicato da: Riccardo Lucatti - 5 Maggio, 2013 @ 6:03 am

Detto altrimenti: siete amanti della musica? Si? Allora leggete questo post. No? Allora leggete questo post.

Della musica classica, intendo. Molti di voi si, altri magari un po’ meno, ma tutti avrete assistito ad un concerto di musica classica eseguito da un’orchestra. La musica: milioni di note, di sfumature, di intervalli più o meno lunghi, di “intensità”, di armonie. Per ogni strumento. Ed ogni strumentista deve eseguirla in accordo con ciascuno degli altri suoi colleghi. E sono tanti. La combinazione delle possibili “situazioni musicali” è enorme e potrebbe essere descritta – tanto per cercare di intendersi – con una espressione matematica: “n” su “k” fattoriale, cioè, posto “n” uguale a 50 (quanti possono essere i musicisti), non credo che si esageri nel dire che le “situazioni musicali” da gestire da parte di un’orchestra siano “50 fattoriale” e cioè 50 x 49 x 48 x ….x 1. Provate un po’ a calcolarle voi!

Uto Ughi

Sembra incredibile che la mente umana riesca prima a comporre, e poi ad eseguire e a dirigere una simile meraviglia. E che dire di quei musicisti che eseguono un intero, complesso concerto, a memoria, cioè, senza spartito? Le cose si complicano ancora se lo strumento utilizzato è il violino il quale, a differenza di altri, quale ad esempio il pianoforte, non ha né tasti né “tacche” di riferimento, bensì conta solo sull’abilità e sulla sensibilità del violinista per indovinare, letteralmente al volo, in frazioni di secondo, la posizione millimetrica delle dita sulle corde. Nonostante tutto ciò, l’uomo ci riesce. Riesce a comporre la musica, ad eseguirla come solista, all’interno di un’orchestra, a dirigere un’orchestra.

Ecco, siamo al dunque: ora voi sciogliete l’orchestra. Per mancanza di fondi, ad esempio, in un periodo di crisi economica, quando la gente non può più concedersi di abbonarsi alle vostre esecuzioni, e/o il settore pubblico ha smesso di sovvenzionarvi. Ciascun musicista potrà ben continuare a suonare, ad esercitarsi, ma l’orchestra è morta. Volendone costituire una seconda, occorrerà ricominciare a coordinare nuovi musicisti fra di loro e occorrerà “ricatturare” un uditorio.

La stessa cosa, mutatis mutandis, succede quando si chiudono le migliaia di imprese, piccole e grandi, che oggi, in Italia, sono costrette dalla crisi a gettare la spugna. Non si perdono solo moltissimi posti di lavoro (per intendersi, definiamo questo fatto come “perdita del bene “A”), ma si distrugge anche l’avviamento di ciascuna impresa (perdita del bene “B”), cioè il sapere stare ed operare insieme, il sapere attrarre “abbonati” (cioè clientela), il sapere eseguire interi concerti (cioè prodotti competitivi sul mercato).

Quanti sono i Bangladesh nel mondo? E in Italia?

Ma a fianco della chiusura “formale” di una impresa, quella accennata or ora, vi è un’altra “chiusura” d’impresa, quella che si attua quando, pur continuando ad esistere formalmente, l’impresa è morta. Ciò avviene quando, sulla spinta della crisi che genera una enorme “fame di lavoro” la quale induce i lavoratori ad accettare qualsiasi situazione pur di portare a casa una pagnotta anche se misera, l’imprenditore o il suo super manager strumentalizza i lavoratori, non li valorizza, non ne cura la crescita professionale, non li coinvolge, non ne rispetta la dignità intellettuale, li umilia con retribuzioni inadeguate. Soprattutto se ha delocalizzato l’impresa in Paesi nei quali i diritti umani e del lavoratore sono un optional. In altre parole, se il capo non rispetta e non motiva i suoi collaboratori, bensì li schiavizza, distrugge l’impresa e chi vi lavora, perchè un’impresa il cui personale non sia motivato non ha futuro.

Costui, nel brevissimo termine, potrà anche avere un piccolo beneficio economico, un incremento dell’utile. Ma oltre tale limitato traguardo, costui distruggerà il futuro della sua stessa impresa. A parte che recentemente Papa Francesco ha dichiarato che il pensare solo all’utile d’impresa, trascurando i diritti dei lavoratori, significa creare una società ingiusta e ciò che è peggio significa porsi “contro Dio” (sic). Contro Dio, nel senso “contro” una componente della Sua religione, quella morale: infatti la (nostra)  Religione è ben altro: essa è Creazione e Resurrezione. Poi “ha” anche una sua morale, che poi è anche la stessa morale laica che indusse il re Hammurtabi, 2200 anni prima di Cristo, a legiferare “Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te, fai agli altri ciò che vuoi sia fatto a te”.