MESSAGGIO D'AMORE, anatomia di un matrimonio

pubblicato da: admin - 26 Luglio, 2010 @ 5:22 pm

Mi sveglio presto al suono delle campane della chiesa e non sono di buon umore perchè c’è ancora freddino. Questo paese mi piace quando splende il sole, l’aria è teneramente fresca e le farfalle piroettano attorno ai fiori. La gatta vuole uscire sulla terrazza della cucina, ma vuoi per un gatto minaccioso  in cima alla scaletta , vuoi per la temperatura frigida ritorna immediatamente dentro. Caffè doppio e apertura PC che per me è una finestra sul mondo. Leggo subito le righe di Camilla, mattiniera anche lei! e le disavventure circa l’acqua mancante! E della sua “relazione sentimental libresca” con Doctorow assunto in questi giorni come marito immaginario.

E a proposito di coppia oggi parlerò proprio di un matrimonio “reale”, come viene raccontato nel romanzo di Somerset Maugham.

L’ho scovato ieri pomeriggio, a lazy Sunday afternoon, tra i vari libri dimenticati qui a Borzonasca. A me sembrava di averlo letto con un altro titolo ” Mrs.Craddock“, ma sono stata contenta di sfogliarlo e ricordare questo ritratto di una coppia apparentemente felice, ma spietatamente individualista, sola e senza quella capacità di crescere insieme per amarsi anche dopo l’affievolirsi della passione .

E’ soprattutto il punto di vista della signora Berta Craddock che l’autore ci fa conoscere in una sorta di spregiudicato, divertito e segreto dialogo fra di loro.

E’ una lettura deliziosa, pur nella sua amarezza, sia per le descrizioni paesaggistiche inglesi a me tanto care: viali di olmi in autunno,  passeggiate nella campagna, il rito del tè. E la genesi dell’innamoramento  di Berta per  Edwuard, il classico gentiluomo di campagna. “ Egli si stava avvicinando: si trattava di un uomo alto di circa ventisette anni, dalla taglia massiccia e dall’ossatura forte, con lunghe gambe e lunghe braccia, e un meraviglioso torace…il tutto era intensamente virile! Odorava di campagna ed anche la misura degli stivali mostrava un carattere deciso ed una grande sicurezza.”

Presto si sposano, ma pur continuando ad ammirare il suo fisico “ella amava le sue mani. Erano grosse, abbastanza rozze ed indurite …robuste e maschie…le facevano tornare alla mente una mano in porfido rimasta incompiuta che aveva visto in un museo italiano…”, Berta inizia a lamentarsi del poco tempo che  il marito le dedica, della sua praticità campagnola, della mancanza di sensibilità. E’ anche gelosa dell’attenzione che egli riserva al vicinato, soprattutto femminile. Gli fa delle scenate, lui si stufa e spesso esce esasperato dopo aver ascoltato le sue lamentele. Un giorno Berta vorrebbe seguirlo, ma lui le sbatte la porta in faccia. Berta scoppia in singhiozzi sul divano. Il dolore viene dissipato dall’ira e dall’umiliazione, “All’improvviso sentì un sentimento di odio contro di lui; l’amore che fino ad ora era stato fermo come una torre di bronzo, cadde a pezzi come una costruzione di carta. Adesso non cercava di nascondere a se stessa i difetti d lui…Berta spogliava con gusto amaro il suo idolo di tutti gli orpelli dei quali lo aveva addobbato con la propria fantasia…”

Eccoci al dunque…tipico di molte donne non “vedere” com’è veramente il proprio uomo, idealizzarlo, pensare eventualmente di modificarlo secondo i propri romantici desideri…ed infine rimanere amaramente deluse.

Berta è in ogni caso sì capricciosa, ,ma anche decisa e testarda, si crea un suo mondo consolatorio in cui vivere con tranquillità, tenta persino una relazione amorosa con un giovanotto ( un po’ Madame Bovary).

E quando Edward muore lei non lo ama già da molto tempo. “Si fermò di fronte al corpo esanime del marito e lo guardò. Il ricordo di Edward giovane sparì, ed ella vide il marito come era stato realmente, grassoccio e rubicondo”

Mestamente progetta il suo futuro, viaggi per dimenticare…forse l’Italia, ma subito anche la consapevolezza di essere finalmente libera. Riflette che “marito e moglie non sanno assolutamente nulla dell’altro; per quanto appassionatamente si amino, per quanto la loro unione sia stretta, non riescono mai a essere una sola persona.”.

Ma è proprio così?

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UNA MANCIATA DI SOGNI, di Maria Wanda Caldironi

pubblicato da: admin - 25 Luglio, 2010 @ 4:09 pm

Ho avuto in prestito da Emanuela questo libretto di racconti pubblicato da La Riflessione – Davide Zedda Editore -nel giugno del 2010. E’ scritto da una sua nuova amica, un medico che vive a Padova. Dalla copertina scelta  – una delicata immagine di un bosco in autunno – possiamo già intuire la personalità di Maria Wanda Caldironi.  E lo stesso titolo dato alla raccolta ci fa capire che cosa  leggeremo. Sogno, realtà, autobiografia, immaginazione… e la  stessa personale visione del mondo dell’autrice ci introducono innanzitutto nel  bisogno della CASA della quale innamorarsi e poi viverci.

E’ così avviene che Maria Wanda ritiratasi a vita privata dopo molti anni di lavoro in ospedale, insieme al marito acquisti e ristrutturi una vecchia casa di campagna di cui si è innamorata a “prima vista”. Nel primo suo racconto è dunque la casa che parla, o meglio i suoi antichi abitanti: conosceremo l’ultimo proprietario, il conte Giacomo che ancora non sa che nascosta tra le pietre della casa c’è per lui un’importante lettera d’amore mai letta.

 Soprattutto avvince la storia di Carlo, appresa attraverso le pagine del  suo diario, che vuol far vivere alla sua figlioletta appena nata  l’emozione incantata che lui prova tra la natura, lontano dalla fretta e dai rumori della città.

La protagonista trova il diario di Carlo proprio nel bosco  grazie a uno dei suoi cani che fiuta e poi dissotterra un quaderno giallo. Questo inizia il 12 aprile 1981 e racconta la gioia di un padre nel vedere nascere e crescere Viola, poi la sistemazione nella casa tra i fiori dove egli sogna di poter continuare a vivere per sempre come nelle fiabe, trasferendo sulla piccola tutti i suoi desideri.

E’ la narratrice dunque, l”ultima proprietaria, che snoda, dirime, riannoda vecchie e lontane storie ancora in parte irrisolte. E la CASA dei sogni, quella che si incarna in noi è di nuovo il punto portante di un racconto. L’appagamento di Maria Wanda nell’averla trovata si sente come un leggero mantello di felicità sulle spalle: lei ci parla di boschi, di fiori, cani, vicini socievoli con i quali sorseggiare un buon vino novello, di stagioni decise delle quali si vedono e si sentono i colori, gli odori. Foglie gialle, ortensie, gelsomini, la brina, la prima neve. Credo che molte di noi troverebbero delle consonanze con  questa signora forte e sensibile  che ha deciso di scrivere di getto delle sue sensazioni perdute, dell’amore per la natura  rivissuta finalmente con un tempo calmo, fluido e di riaprire il cuore “all’incanto della creazione” per osservarlo con occhi nuovi. “Urgenza di voler vivere“  scrive Maria Wanda nella prefazione.

Ho terminato il terzo racconto poco fa, distesa nella mia cameretta blu mentre ascoltavo il frinire delle cicale…e sentivo il vento di rosmarino e lavanda che asciugava il mio bucato. E proprio VENTO è il titolo del racconto, nome di un bellissimo purosangue che ha condiviso con l’autrice 14 anni di vita. Il suo vero nome sarebbe stato Vento di San Martino…”Solo chi ama il suo cavallo può comprendere” scrive la Caldironi circa il legame affettivo che si instaura tra padrone e animale. Ci vengono raccontati aneddoti, passeggiate, paure, gioie condivise e soprattutto una speciale complicità che mi ha commosso più volte… Quando entrambi, cavallo e cavallerizza riescono a fronteggiare il rumoroso impatto con una fiera di paese, o quando VENTO riesce nitrendo a difendere entrambi da due agguerriti cani abbaianti…E il loro suardo in questi frangenti, il loro sguardo fermo di intesa e così ben descritto che mi fa venire ancora voglia di piangere. E’ una bellissima storia d’amore.

Grazie Maria Wanda, che ce l’hai raccontata.

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DODICI RACCONTI RAMINGHI, e le voci del vento

pubblicato da: admin - 24 Luglio, 2010 @ 10:50 am

Mi sveglio e sento il vento: la sua voce fresca  fa frusciare le fronde che si riflettono arabescate nella cucina. Fa anche cadere le piccole prugne ( caterinette) in testa ai gatti che vorrebbero corteggiare Mimilla.

 Io leggo i vostri commenti, care Camilla e Raffa, e mi si apre il cuore. Qui il fresco è assicurato, almeno alla sera e nelle prime ore del mattino, ma poi ci saranno tanti giorni di forzato eremitaggio. Leggerò, scriverò, mi godrò le rondini del tramonto…Mio genero però ieri sera, mentre a Chiavari gustavamo una cenetta a base di pesce, ha aperto le scommesse dicendo che senza la visita quotidiana di Stefania durerò da sola nel paese fino al 10 agosto! 

Si vedrà. Intanto, come dice Camilla, sono fuggita dal caldo surriscaldato della città e posso ascoltare voci nuove. Come quelle dei “Dodici racconti raminghi”di Gabriel Garcia Marquez che tanto piace a Raffa. Questo libro è sul comodino di Stefania, sopra a Moby Dick( quest’ultimo…mai finito di leggere….dopo dieci anni)|

Questo libro di Marquez, edito da Arnoldo Mondadori Editore, stampato nel 1992,ha una lucida copertina con una coloratissima begonia dipinta. Qualche volta, mi piacciono i racconti, anche se io tendo ad amare i  romanzi che mi tengono legata per giorni e giorni. Ma di questi “raminghi” mi piace parlarne per la loro particolarità. Lo stesso Garcia Marquez confessa che essi sono stati scritti per raccontare delle cose strane che succedono ai latino-americani in Europa, soffermandosi sugli eterni temi del sogno, della solitudine , della magia, dell’amore e della morte.  Sembra che per l’arte di Marquez  “il mondo non sia altro che un immenso giocattolo a molla con cui si inventa la vita”.

“Gli spaventi d’agosto” mi ricordano un po’ Poe per il fantasma sanguinario che si aggira nel castello rinascimentale di Arezzo dove una famigliola sudamericana viene ospitata dal proprietario, lo scrittore venezuelano Otero Silva. Nessuno crede che il fantasma del folle Lodovico che pugnalò la moglie dopo una notte d’amore  e che poi si fece sbranare dai suoi cani da guerra, sia veramente presente nelle 80 stanze.  Tranquillamente i due ospiti accettano di passare la notte nel castello…ma al mattino si risveglieranno nella stanza nuziale di Ludovico, l’unica a non essere stata ristrutturata,…e nello stesso letto ancora impregnato dell’odore di sangue dell’uxoricidio..

Ed ancora sangue nel delicatssino ultimo racconto che parla della sposa che si è ferita un dito con una rosa. Proprio il dito con l’anello matrimoniale. E’ Nena Daconte ancora una bambina”con certi occhi da uccello felice e una pelle di melassa che irraggiava ancora il solleone dei Caraibi nel lugubre imbrunire di gennaio”. Siamo in Francia, ma nessuno riesce a frenare questo sangue che continua a sgorgare e a lasciare tracce sulla neve. “A Parigi, il dito era una sorgente incontenibile, e lei sentì davvero che l’anima stava uscendole dalla ferita”.

Gabriel Garcia Marquez nell’introduzione ci spiega la genesi dei suoi dodici racconti raminghi: ricordi, notizie lette sui giornali, sogni, argomenti per sceneggiature…tutti “redenti dalla loro condizione mortale grazie alle astuzie della poesia”.

Racconti raminghi perchè nella mente e sulla scrivania dello scrittore andavano e venivano, ma poi tutto viene risolto. Il rarefatto capovolgimento stupefacente di antiche suggestioni, i fantasmi della memoria, diventano il puro piacere della narrazione, che “è forse la condizione umana che più somiglia alla levitazione.”

“Chi li leggerà saprà cosa farne” conclude Garcia Marques, e noi lettori golosi lo sappiamo…per essere più felici.

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AUTOBIOGRAFIE, di W.B.Yeats

pubblicato da: admin - 23 Luglio, 2010 @ 6:03 pm

Forse, grazie all’aiuto della mia preziosa Stefania che mi ha installato un suo vecchiotto PC portatile qui a Borzonasca, riuscirò a scrivere il mio blog. Non è facile, ci vogliono tempi lunghi per la connessione, e sono scomodissima senza mouse e con la tastierina a cui manca anche la lettera G!

Ma andrò avanti con coraggio. Meno male che ieri  in mio soccorso, come una fatina, è arrivata  Camilla.

Trovarsi dopo un anno in un’altra casa, pur se propria, è sempre un faticoso assestamento. Avrei sempre bisogno di avere accanto le consuete cose . Ma qui sul comodino della mia camera rimane  ann0 dopo anno un libro, già letto, ma che per la sua delicata bellezza lascio sempre in vista. Copertina verde acqua e il ritratto di Yeats, il famoso poeta irlandese, disegnato a carboncino  da J.S. Sargent.

Mi fu regalato nel 1998 da un ex alunno, amante anch’egli delle vite dei poeti.

 Leggiamo dunque della sua  vita che inizia nella “scabra e sanguigna Irlanda nativa ” per passare alla Londra vittoriana ed arrivare nel 1923 in Svezia dove gli viene conferito il premio Nobel.

Nelle sue poesie, visioni e realtà, elfi, faerie,fate. Conosciamo così terre sperdute, boschi magici, quella particolare atmosfera irlandese che io ho adorato nel viaggio fatto sei anni fa. Ricordo che a Sligo, (pr.Slaigo) davanti alla sua tomba, rimasi per un po’ in attenta ed estasiata concentrazione. Bellissimi versi incisi sulla lapide che non ricordo benissimo ma che consigliavano di andare avant nella vita, come cavalieri…

Scrive Yeats nelle sue Autobiografie : ” Nella mia vita sono diventato di anno in anno più felice, come se poco a poco andassi conquistando qualcosa in me stesso; di sicuro, infatti, le mie angosce non erano opera d’altri, ma parte della mia mente.”

Questa è una riflessione importante che dovremmo ripeterci costantemente per non colpevolizzare mai gli altri della nostra infelicità, siamo noi gli artefici del nostro destino?

Ed io dovrei ripeterle in continuazione, ora che devo prendere decisioni importanti che tendo invece a demandare in parte a mia figlia. “ Ci vogliono tanti anni prima che si possa credere abbastanza a fondo in ciò che si sente per sapere almeno che cos’è quel sentire” ci dice W.B.Yeats.

Questo è il mio primo post da Borzonasca, fresco paesello dell’entroterra ligure, il mio giardinetto pensile ha qualche rosa sbocciata e il cespuglio di lavanda fiorito ( non la distesa dove la cara Donatella mi immagina!). Anzi, prima che Stefania riparta per gli Usa, dovremo sconfiggere una temibile banda di calabroni, chiamati “ruggeri” che hanno fatto il nido nel muro della prima balza del giardino.

La campagna è bella, adoro i fiori e le farfalle, ne scrivo poesie…ma mi accorgo di essere un “animale cittadino”.

Mimilla è invece felicissima ed ha già adocchiato  due bei gattoni…

A domani e un affettuoso saluto a tutti…

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IL TEMPO DI UNA CANZONE, di Richard Powers

pubblicato da: admin - 22 Luglio, 2010 @ 8:40 pm

Sono veramente contenta che Camilla mi abbia inviato oggi il suo post perchè non solo mi ha salvato da un momento difficile di riorganizzazione computer ma mi ha donato una bellissinma suggestione di lettura.

IL TEMPO DI UNA CANZONE di Richard Powers Ed. Mondadori Pub. In Italia 2006 The Time of our Singing (pag. 83) Richard Powers affronta l’immensità di questo romanzo con piglio da storico, con la capacità che hanno solo i grandi di farci avvertire il respiro del tempo collettivo, il muoversi di una intera società, di un mondo, attraverso centinaia di anni, di eventi, di luoghi.La musica è la prima protagonista, ma certo anche il tempo è protagonista: Powers è uno scrittore filosofico e scientifico, colto e intellettuale; i suoi romanzi sono sempre esperimenti letterari in cui la narrazione si intreccia alle grandi questioni del sapere. Mi sembra che in questo romanzo anche il tempo sia da considerare come materia in cui vive la musica, grande passione dei protagonisti, in particolare dei fratelli, Jonah e Joey che da un lato fanno i conti con l’enorme patrimonio della musica europea, dal canto Gregoriano alle sperimentazioni del ‘900, dall’altro devono confrontarsi con tutta la tradizione di gospel, blues, jazz, giù, giù fino alle martellanti ritmiche dei rapper.Un omaggio alla musica, tutt’altro che celebrativo e superficiale, basta seguire il sogno di Jonah,( ed è Jonah il vero , grandioso talento vocale e musicale, è lui la luce sfolgorante del romanzo, è lui che ci farà battere il cuore, durante tutto il lungo viaggio, affascinante , tra la storia che vive fuori dal palcoscenico e quella davvero splendida, a cui darà vita sulle scene dei grandi concerti europei e americani). Il sogno di Jonas è quello di tornare “a un mondo anteriore alla dominazione” , cioè di formare un gruppo musicale-vocale che esegua la musica medievale e rinascimentale, la musica dell’Europa che non si era ancora scatenata nella guerra di conquista mondiale. E’ il tentativo di un ragazzo di immenso talento musicale di ritrovare l’innocenza del mondo. Ma è anche , per Richard Powers, l’opportunità di ripercorrere una stagione della musica colta europea, la riscoperta della vocalità antica, l’approccio filologico ai grandi maestri prebarocchi. E mi fermo qui : chi vorrà buttarsi in questa grande avventura, chi vorrà leggere Il tempo di una canzone, più che una canzone, una poderosa e trascinante sinfonia, da ascoltare fino all’ultima nota, ne uscirà tanto arricchito, per sempre……….. ”Jonah Strom…Lui era il ragazzo dalla voce magica………” Ho letto pagine di questo libro, ad alta voce, per chi voleva commuoversi con me, ripercorrendo le vicende dei nonni di Jonah, dei genitori, del pesce e dell’uccello?. “L’uccello e il pesce possono innamorarsi. Ma dove costruiranno il loro nido?”Questa è anche la storia della progenie del pesce e dell’uccello che provarono a mettere su famiglia: la narrazione appassionata dell’incontro di un fisico ebreo tedesco, David Strom Emigrato negli Stati Uniti per sfuggire ai massacri nazisti e Delia Daley , cantante afroamericana, figlia di un medico: Per l’america dell’epoca sono un pesce e un uccello:due creature la cui unione sembra impensabile. Ma sarà una delle famiglie più indimenticabili, con i loro stupendi figli musicisti, della storia della letteratura. Pagine magnifiche dove la voce di Jonah e la musica sembrano uscire, potenti, dal libro e così le vicende di una magnifica famiglia, la famiglia Strom, raccontate dalla voce del fratello di Jonah, Ioey, un fratello di poco maggiore che lo accompagna al piano nei concerti e che cerca di tenerlo per mano nella vita. Per quanto può.Una tempesta di emozioni, una grande avventura che non si potrà più dimenticare. Richard Powers, Illinois, 1957. E’ considerato uno dei maggiori scrittori americani contemporanei e autore di numerosi e pluripremiati libri.

Camilla Pacher

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IL ROMANZO DELLA GUERRA CIVILE, di Giampaolo Pansa

pubblicato da: admin - 21 Luglio, 2010 @ 9:52 am

Romanzo_guerra_civile-Pansa_1[1]Ecco un altro libro letto da Riccardo che presento volentieri in quanto si cambia finalmente argomento.  

Inoltre è un validissimo aiuto per oggi, giorno della nostra  grande partenza per la Liguria… con un sacco di roba (sempre troppa e già immagino inutile) ,  gatta compresa ( lei utilissima!) Spero di riuscire a continuare il mio impegno-blog  dal paesello verde dell’entroterra.

Giampaolo Pansa

Il romanzo della guerra civile

Sperling Paperback, Frassinelli Editore, ottobre 2009

833 pagine, €19,90

 

 

Dopo l’8 settembre, a Genova, i tedeschi invitarono a cena alcuni ignari carabinieri. Fra questi vi era il mio babbo. Improvvisamente, fra una portata e l’altra, comparvero i mitra: “State con noi o la prigionia. Scegliere, aber schnell auch!”. Il mio babbo si è fatto due anni di campo di prigionia in Germania. Questo, per dire con quale delle due culture del dopoguerra io sono stato nutrito.

Un rimpianto? Non avere capito il valore di quelle banconote tedesche che egli aveva ricevuto per i lavori che svolgeva nel campo tedesco, lavori eseguiti “spintaneamente” s’intende. Erano “banconote di guerra”. Ricordo che babbo, al suo ritorno a casa, le aveva date a noi bambini per giocare, cosa che abbiamo fatto, senza capire – e come avremmo potuto? – quale valore avevano e soprattutto avrebbero avuto in seguito. Non mi riferisco certo al valore venale, ma a quello testimoniale di una parte importante della vita del mio babbo. Peccato …

Lavori? Quali lavori? Ovviamente quelli che gli venivano comandati, come, ad esempio, caricare un motore d’aereo su di un camion senza disporre di una gru. Come si fa? Si scava una fossa, uno scivolo, entro il quale si fa entrare a retromarcia il camion. Poi, usando grossi pali come leve, si ribalta letteralmente il motore sul pianale del camion. Ah, questi Italiani, una ne fanno ed una ne pensano. Organizzati no, ma inventivi si.

Cosa ricevettero babbo e i suoi colleghi in cambio? Un enorme mastello di marmellata, tanto era “andata a male, con la muffa sopra” dicevano i Tedeschi. Ma gli Italiani, recatici dietro la baracca, ripulirono la marmellata dal leggero velo superficiale di muffa e fecero una scorpacciata di ottime e gustose calorie.

Ma ritorniamo a noi. Nonostante la premessa, io apprezzo Pansa. Revisionista? Se per revisionismo si intende la sovversione della storia, no, non lo accetto. Ma se per revisionismo si intende il completamento di alcune lacune della storia, beh, allora questo è accettabile ed anche giusto direi.

In questo senso mi sento di suggerire il volume che sto citando.

Dal 1943 in poi, tre bei romanzi ambientati in un ambiente storico ricostruito con precisione. Le donne, poi, ne sono le protagoniste. Già, perché quando si pensa alla guerra ed al dopoguerra, si parla di fascisti, di partigiani, di tedeschi, tutti al maschile. Eh no, signori, c’era anche l’altro sesso a soffrire, a sperare, a lottare.

E poi, si tratta di un libro scritto bene, che si legge volentieri, che avvince. Insomma, a mio giudizio è un arricchimento, sia letterario che storico. Buona lettura

 

Riccardo Lucatti, classe 1944

 

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IL CONTRABBASSO, di Patrick Suskind

pubblicato da: admin - 20 Luglio, 2010 @ 6:32 pm

scansione0010 Ancora uno scritto sulla musica in attesa del post di Camilla. Questo è un libretto breve, di veloce lettura, un monologo di un musicista frustrato.  Il sottotitolo recita “Un fulminante monologo contro la vanità dei primi violini”, ma a me sembra soprattutto che venga sottolineata la solitudine umana che può essere raccontata sia da un controbassista, come in questo caso, ma anche da un’altra qualsivoglia persona.

Le scelte obbligate, le frustrazioni, le delusioni, la sensazione di inadeguatezza sono sentimenti che tutti possiamo provare. L’ Orchestra di stato può essere la nostra società e dentro di essa, oltre i primi violini, ci sono coloro che non riescono ad emergere nel modo desiderato o prescritto dagli altri…

Il nostro musicista, ancora giovane, che beve birra  mentre parla di sè e sfoga la sua acredine, il suo senso di disagio a voce alta ad un immaginario o reale interlocutore, è innamorato non dichiarato di Sarah, il soprano dell’orchestra, dalla voce ammaliatrice. Pensa che forse farà un colpo di testa durante il prossimo concerto: dalla terza fila dove suona urlerà il suo nome  “Sarah”, così sarà visto, licenziato come un…direttore d’orchestra…avrà fatto qualcosa sotto la luce dei riflettori.

Racconta della sua  scelta  musicale come una forma di ripicca verso i genitori da cui non si è mai sentito amato.

Contrabbasso, strumento grosso, imponente, è una base per l’orchestra, e per lui è il suo scudo, ma anche il suo impedimento. Lo sente anche come un corpo femminile attraverso il quale  trasmettere il suo eros, i suoi sentimenti frustrati, la sua infelicità.

Ora, il contrabbasso è senz’altro uno strumento femminile – ma mortalmente serio. Come certo anche la morte – siamo al valore sentimentale di tipo associativo – è femminile nella crudeltà del suo contenere, o, se si preferisce, nella sua inevitabile funzione di grembo materno; d’altra parte anche come complemento del principio vitale della fertilità, della terra natale e così via, non ho ragione?”

“Anche se non sembra, il contrabbasso è di gran lunga lo strumento più importante dell’orchestra. “ ci ricorda il protagonista nel suo desiderio  di rivincita. La sua amarezza è desolata, ma piena e “ebbra”. Le sue frustrazioni sono mescolate ad accenni musicali, a Brahms, l’unico che ha suonato il contrabbasso, a Mozart , Beethoven, all’inviso e antipatico Wagner, insomma al mondo della musica…musica eterna…come diceva Goethe “La musica è così in alto, che nessuna mente può afferrarla, e da essa si sprigiona un effetto che domina tutti e di cui nessuno riesce a rendersi conto.”

Quindi ci dispiace per la depressione di questo concertista, ma sentiamo in fondo in fondo al suo animo , il grande aiuto che l’arte gli dà e darà sempre.

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DIARI E LETTERE di ARTHUR SCHNITZLER

pubblicato da: admin - 19 Luglio, 2010 @ 9:55 pm

graz 2010 009L’anno scorso ho letto appassionatamente “I diari” di Arthur Schnitzler, scritti che mi hanno dato un immenso piacere e arricchimento. Come già ho detto più volte la diaristica è un genere che adoro, soprattutto se a scrivere di sè sono gli artisti o persone particolarmente sensibili. Naturalmente ci sarebbe da parlare moltissimo della vita di Arthur Schnitzler, del suo pensiero, delle sue opere, ma senz’altro ci sarà occasione di farlo nei prossimi mesi. Freud lo ammirava moltissimo, gli scriveva che lo sentiva quasi il doppio di sè, tanto l’introspezione psicologica era acuta e sincera.

Scelgo questo libro oggi perchè sono appena tornata da Graz , da quell’Austria Felix che tanto ha dato al mondo dell’arte.

Austria  verde, ordinata anche oggi e Graz città particolarmente ridente e aperta alla modernità pur conservando tradizioni e monumenti antichissimi. Proprio nel 2003 fu capitale della Cultura Europea e in quell’occasine vennero costruiti sia la bizzarra Kunstshaus, una sorta di dirigibile  blu pieno di oblò e  una conchiglia galleggiante in mezzo al fiume Mur. Qui si trova un delizioso caffè avveniristico dove mi sono rinfrescata dalla calura di queste esate afosa.  Sono salita anche ad ammirare  la Torre dell’orologio, l’antica Uhr Turm, simbolo della città. Nel centro storico di Graz comunque sono visibili tantissimi stili architettonici, dal Medioevo al XXI secolo, tanto che l’Unesco nel 1999 l’ha innalzato a Patrimonio culturale dell’umanità.

Tutto questo mentre Stefania provava Shubert nel  bellissimo castello di Eggenberg immerso in  uno splendido parco pieno di pavoni.

Il concerto di Stefania, nell’ambito  di Styria Arte, è stato apprezzatissimo, così mentre tornavamo verso casa attraversando la verde Val Pusteria, io pensavo già a ciò che avrei scritto nel mio diario. Le bellezze della città, l’emozione della musica che mia figlia è riuscita a trasmettere, le ore passate nell’albergo fresco di aria condizionata, i pasti nei localini accoglienti, l’ansia e le nostre risate. Insomma la mia vita mescolata alla sua.

Ho ripensato anche ad alcune frasi di Schnitzler che avevo trascritto proprio sul mio diario e in cui in parte mi ritrovo. Scriveva di sè nel 1915:

“I miei difetti originari: impazienza, eccitabilità. Il mio bisogno di sincerità è totale, che al presente non posso soddisfare del tutto. Desiderio autobiografico. Non per vanità, ma piuttosto per un senso di solitudine…”

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MOTIVO D'ALLARME , di Eric Ambler

pubblicato da: admin - 18 Luglio, 2010 @ 10:52 pm

                         La letteratura gialla è sempre gradita, ci permette di   evadere completamente   dalla               quotidianità e ci regala spesso qualche brivido. 8845920313_small[1]Eric Ambler è un autore che anch’io apprezzo molto. Grazie quindi,  ancora una volta a Riccardo che mi ha rifornito di parecchi post prima di andare sull'”isola deserta“.

 Appena tornata da Graz con Stefania reduce da un intenso concerto di Schubert , credo che me ne andrò a letto, ma  riesco a  a mantenere la tabella di marcia, grazie proprio a Riccardo..

Eric Ambler (1909-1998) è scrittore, giornalista e sceneggiatori di film, fra cui spicca il famoso Topkapi.

 

Spionaggio. Normalmente siamo abituati a vedere inquadrati questi racconti in Russia, Stati Uniti, Germania dell’Est etc. I protagonisti si chiamano Callaghan, Smith, McPerson, Billy etc.. Qui no. O almeno, non solo.

Uno scrittore inglese ambienta un romanzo (ma sarà poi solo un romanzo?) nella Milano fascista e poi nel nord est italiano e accanto agli immancabili Marlow, Ferning, Vagas troviamo i “nostri” Bellinetti, Venezetti, Marinetti.

Dall’Inghilterra a Milano. In una Milano nebbiosa com’era una volta, per chi l’ha conosciuta anni fa, come me, quando di sera, respirando attraverso un fazzoletto bianco, quel bianco pian piano spariva …

In una Milano che ti si svela, come città “capace” anche di questo, e pertanto assai meno provinciale di quanto taluno la voglia far apparire rispetto alle grandi metropoli europee.

La trama è sicuramente coinvolgente in quanto il lettore può molto più agevolmente riconoscersi nell’ambiente e quindi immedesimarsi nella vicenda.

Dello stesso autore altri romanzi, tutti consigliabili: Epitaffio per una spia, (1938; Adelphi 2001); La maschera Dimitrios (1939; Adelphi 20009; Il processo Deltchev (1951; Adelphi 2002); e altri ancora.

Tutte ottime letture estive.

 

Riccardo Lucatti

 

 

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I FOGLI DEL CAPITANO MICHEL, di Claudio Rigon

pubblicato da: admin - 17 Luglio, 2010 @ 1:38 pm

Oggi parto per Graz con Stefania , lo faccio  con tranquillità  perchè Luigi mi ha spedito le sue impressioni su un interessante e appassionante libro. Questo suo post, vi accorgerete, è veramente molto sentito e sembra che il racconto di Claudio Rigon sia un po’ quello di  Luigi che  già  da anni  cerca, raccoglie e conserva per tutti noi testimonianze preziose.

Ci scrive Luigi Oss Papot

 Per quanto mi è possibile finalmente, porto anch’io un po’ di sollievo alla prof contribuendo con un nuovo post. Dico finalmente perché solo ora ho trovato il tempo di scrivere, prima preso dagli esami di maturità, poi dal lavoro che è cominciato lunedì scorso.

Ovviamente i miei contributi si possono definire “monotematici”, ma in futuro se trovassi l’occasione potrei anche parlare di altro, attinente al mio percorso di studi, quindi materiali latini e greci. Ma si vedrà.

Intanto, oggi si parla sempre di Grande Guerra, ma da un altro punto di vista, che anche mi appassiona e che presumo sarà la mia strada per i prossimi 3/5 anni all’università, ossia dal punto di vista degli archivi storici.

Il libro che presento si intitola “I fogli del Capitano Michel” di Claudio Rigon, professore di fisica in una scuola superiore.

All’inizio c’è un ritrovamento, nell’archivio di un museo: alcune piccole fotografie di soldati. Anche se sparse fra altre, qualcosa le unisce e le rende riconoscibili: un certo carattere, una sorta d’ingenua semplicità. Sul retro, a matita, è annotato sempre lo stesso nome: Michel. Un nome che diventa come una traccia da seguire.

Quelle fotografie fanno tutte parte, insieme a carte, lettere, documenti, di una stessa donazione. Una delle buste della “donazione Michel” contiene anche un blocco di fogli, di misure diverse, ripiegati a metà. Dicono di pattuglie in perlustrazione nella notte davanti alle trincee austriache, dell’arrivo del rancio, di un bombardamento, di morti. Dicono anche che si è davanti a Monte Ortigara, in quei luoghi che i lettori conoscono grazie a Mario Rigoni Stern ed Emilio Lussu.

Sono messaggi, in gergo fonogrammi, con cui alcuni reparti di un battaglione alpino si erano comunicati disposizioni ed informazioni. Come delle telefonate, scritte però a mano da alcuni ufficiali, e recapitate da portaordini. Vanno dal 24 giugno al 29 luglio del 1916, un mese. Proprio allora il capitano Michel, appena promosso, era giunto a prendere il comando di un battaglione decimato, rimasto quasi senza ufficiali. Nella vita civile era insegnante di storia e filosofia.

Claudio Rigon legge e rilegge quei fogli, comincia a metterli in ordine, per data e per ora (quando sono indicate) poi procedendo per riferimenti incrociati. Cerca di inquadrare ogni dettaglio in un contesto, viaggiando da un libro all’altro, ripercorrendo a piedi gli stessi luoghi. Quei fonogrammi in fondo sono solo minuscoli frammenti della vita di quelle giornate. Eppure nel leggerli Rigon vi scopre un ritmo, un movimento, sente che si compongono in un flusso. Segue quel flusso e dà voce alla carta, una voce esatta, mai retorica, mai invadente, scarna e poetica.

Di pagina in pagina, prende vita un intero mondo, un’intera umanità. Sono quei fonogrammi, più ancora delle fotografie (che non sono riprodotte nel libro non a caso), a restituirci una storia apparentemente lontana, una storia di guerra. Ma soprattutto una storia di uomini, spesso giovanissimi, che si sono ritrovati a vivere l’orrore ma anche la normalità del fronte. Alla fine si ha la sensazione che siano proprio quei soldati a dire di sé, a raccontarci senza volerlo qualcosa d’importante.

Dice Rigon: “Ogni biglietto mi colpisce, su ognuno mi soffermo. Quando ne prendo uno in mano mi accorgo che non lo trattengo con le dite – solo un attimo per sollevarlo: lo lascio come sospeso nel cavo della mano, lo soppeso, lo interrogo. È stato scritto da uomini che erano i nostri nonni (per me, per la mia generazione), che si sono trovati lassù, in quei luoghi, fra quelle pietre, su queste nostre montagne, a vivere qualcosa che è difficile anche pensare, ora, essere stata possibile”.

 

È un po’ la stessa cosa che faccio io ogni volta che prendo in mano le cartoline che mio bisnonno scriveva a casa dalla prigionia in Siberia, di cui ho già scritto nel mio primo post.

È una sorta di rispetto verso quello che è stato, da recuperare ma anche e soprattutto da conservare e tramandare.

È quello che è stato fatto a Pergine da un mio amico che ha redatto un libro che verrà presentato il prossimo 10 settembre (sulle genealogie perginesi “rivisitate”). Anche di questo ho già parlato, ma ora che sto svolgendo il mio apprendistato proprio in canonica, sua “fucina”, ne sono ancora più coinvolto, e ci intratteniamo in lunghe ed appassionate chiacchierate

 

Dato che poi si è parlato di poesia, concludo con una poesia di Emma Valcanover, perginese, che inquadra il lavoro che io, nel mio piccolo, che il mio amico sta svolgendo ed ha già svolto, che insomma svolgono tutti coloro che fanno luce sul passato. Si intitola “Bisnono”, è in dialetto (spero che comunque sia comprensibile), ed apre proprio il libro sulle genealogie. “Si parla di alberi, rami, radici, generazioni… un messaggio di dialogo e speranza, “ultima dea”, come la chiama Ugo Foscolo ne “I sepolcri”.”

 

BISNONO

 

Vèi chi… vèi chi

bel nipotin!

L’hat vist quel alber

lì vizin al ronc?

L’hat vardà quel tronc?

El perde la scorza

la se destaca da

l’oss malà.

L’hat vardà ben?

L’è tut carolà – porèt!

Curiosa mò ‘n tra i rami…

te fai ben prest,

no ghe n’è quasi pù…

i è tuti nadi anca l’ista!

 

Vèi chi… vèi chi

bel nipotin!

Vardante en mezz a l’erba

entorno ale radis:

quanti reputi!

Do tre generazion.

Foie tendre!

Dai… dai

Ghe tiran via le erbaze

ghe lassan vegnir

chi ‘l sol!

Buone letture e buona poesia a tutti!

 

luigi.osspapot@gmail.com

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