QUATTRO GIORNI DI MARZO, e un universo femminile
pubblicato da: admin - 12 Gennaio, 2011 @ 8:43 pmScelgo di getto questo romanzo. Capisco che si tratta di una storia di donne, d’amore, di madri, di figli. Un mondo femminile messo a nudo. Uno dei miei generi preferiti.
Poi scopro che è stato scritto da un uomo: Jens Christian Grondahl, un danese nato nel 1959. Riuscirà ad entrare nelle pieghe dell’animo femminile?
Direi di sì. La lettura è avvincente, l’analisi che Grondhal fa di una “malsana” linea femminile è profonda e acuta. E’ il ruolo materno che marchia a fuoco, segnandone gli avvenimenti, le tre donne della stessa famiglia.
C’è Ada la “dominatrice” matriarca, scrittrice di una breve stagione di successi letterari, che vive aggrappata al ricordo di un tè bevuto con Karen Blixen, e  che è stata madre arida e lontana di Berthe, fragile e impacciata madre di Ingrid, la protagonista.
E’ seguendo quattro giorni intensi e decisivi di Ingrid - bella quarantottenne architetto,  divorziata, con un figlio adolescente, un amante – che anche noi Lettori ci chiederemo quali sono i punti centrali di una vita? E che cosa intendiamo per “punti centrali”?
La risposta ovvia ( o giusta?) per molte donne  è  il matrimonio, la maternità . Oppure?
Ingrid in questo pellegrinaggio a ritroso nella sua vita ritiene siano quelli dell’infanzia alcuni punti centrali  anche se riconosce come momenti topici, fondamentali la nascita di suo figlio Jonas “Finalmente l’amore si era manifestato come qualcosa di diverso dal desiderio, e c’era un vuoto nello stomaco, una gravità tranquilla e fiduciosa nel dover far nascere quel bambino e averlo voluto lei stessa.”
 E l’incontro con Frank, il suo amante per il quale otto anni prima ha abbandonato marito e figlio.
E’ con Frank, l’uomo più vecchio di lei di molti anni che lei sente di essere veramente se stessa. Solo nel suo sguardo riesce ad ancorare il suo. Riescono a guardarsi veramente nel profondo. “Vedere l’altro che vede chi e che cosa siamo.”
Ingrid giovedì si trova lontano da Copenhagen per lavoro quando riceve una telefonata dall’ex suocero che l’avvisa che il figlio è stato sorpreso dalla polizia  a picchiare insieme ad altri un ragazzo straniero. Â
 Parte immediatamente perdendo il prezioso orecchino di perle, primo regalo di Frank. (Un segno del destino?)
Il viaggio notturno diventa una feroce introspezione della sua vita, dei suoi errori, delle sue scelte. Soprattutto del suo senso di colpa verso Jonas “abbandonato” per una sua esigenza di onestà .
 Ma è quasi una “coazione a ripetere” essere una “cattiva” madre come Berthe, come Ada. “Pensa alle donne di famiglia. Lo schema che a ogni costo aveva cercato di evitare, spezzare, dal quale ha sempre voluto liberarsi. Poteva fuggire in capo al mondo, sarebbe rimasta la figlia di qualcuno.”
Perchè si è innamorata di Frank? Per la ricerca di quel padre lontano, freddo e  che ad un certo punto lei inizierà a chiamare per nome e cognome, Norman Dreyer, e non più papà ?
Negli altri tre giorni di marzo tutto di allinea e si sfalda…ma non so come finirà . Anche l’amore con Frank è a una svolta.
Mi mancano settanta pagine che mi gusterò stasera a letto, ma non riesco a prevedere se la fine sarà tragica, serena o ineluttabile.
So che Ingrid Dreyer diventerà un altro personaggio familiare del mio mondo letterario.
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LA VITA COMINCIA A MEZZANOTTE, di M.L.Linares
pubblicato da: admin - 11 Gennaio, 2011 @ 8:20 pm Scommetto che nessuna di voi conosce Maria Luisa Linares, scrittrice spagnola, famosa per le sue storie romantiche pubblicate dagli anni’40 agli anni ’70. Io possiedo due suoi libretti, praticamente a pezzi, tanto che credo che una parte di pagine sia qui ed un’altra parte a Borzonasca.
Le sue storie che si possono definire “rosa” perchè parlano d’amore e di avventura - ma senza alcuna connotazione erotica perchè al tempo proibita dalla censura - hanno un quid delizioso, quello dell’umorismo. Ed ancora la descrizione lieta e vivace della vita delle grandi città spagnole: Siviglia, Granada e soprattutto Madrid.
Credo di essere rimasta molto influenzata dalle sue storie tanto che quando mi trovai ad Haro, nella Rioja, ospite per un mese di un’amica conosciuta a Londra, tanto feci e insistetti che la convinsi  ad andare a Madrid. Rigorosamente in autostop.
Avevo in mente le avventure di Silvia Heredia, la protagonista de La vida empiesa a medianoche. Vittima di equivoci esilaranti per cui viene creduta una cacciatrice di dote, la giovane si ritrova nella Madrid notturna tra ristoranti, bar e teatri, a vivere avvenimenti inaspettati e divertenti – tutto in una notte –  ma con un finale romantico. I personaggi sono caratterizzati pienamente e l’allegria contagiosa di Madrid e degli spagnoli è descritta in modo ammaliante.
LA BALLATA DEL VECCHIO MARINAIO di Coleridge
pubblicato da: admin - 10 Gennaio, 2011 @ 9:55 pmDopo aver letto  delle ossessioni di capitan Achab raccontateci da Melville in Moby Dick - questo simbolo del Fato contro il quale l’Uomo vuole combattere caparbiamente - occorre ricordare ancora un’altra sublime opera sul rapporto Uomo- Mare. O meglio Uomo-Natura.
 Questa volta si tratta di una Ballata di Samuel Taylor Coleridge.
The Rime of the Ancient Mariner appare nelle Lyrical ballads nel 1816, ma poi Coleridge lo rivede per eliminare l’ortografia rozzamente antiquata e per apportarvi dei miglioramenti.
Si tratta di un incantato componimento di avventure simboliche narrate da un antico marinaio che sembra un Caino o un Ebreo errante, secondo alcuni critici. Il marinaio si rivolge a un invitato a nozze e gli impedisce di recarsi alla festa, raccontandogli questa storia arcana ed avvincente.
Stanno salpando verso il  mare aperto, una nave lascia il porto “gaiamente” “sotto la punta del faro” “Below the lighthouse top“.
Ma improvvisamente gli avvenimenti si fanno strani: sorge una bufera a raffiche che inclina gli alberi, sommerge la prua. Cade pioggia mista a neve e ad un tratto “crebbe un portentoso gelo: e ghiaccio a altezza d’albero venne galleggiando, verde come smeraldo” “As green as emerald”.
In questa atmosfera fredda e gelata, dove il ghiaccio è triste e bello, respinto e desiderato appare l’Albatro, uccello di buon augurio che segue la nave.
Albatro, natura amica, creatura di Dio.
Ma che fa il vecchio marinaio? Con un gesto gratuito uccide l’albatro con la balestra. L’uccisione inutile dell’uccello rappresenta dunque la Crisi. La violenza gratuita vìola una profonda santità naturale.
“God save thee, ancient Mariner!”
Ma la maledizione arriva repentina. E le descrizioni che Coleridge fa di ciò che avviene rimane per sempre nell’immaginario del lettore.
Cade il vento, “giorno via giorno, giorno via giorno, restammo lì senz’alito nè moto, / immobile la nave come dipinta nave / su un oceano dipinto:”
Che sensazione di angoscia, di prigionia, di  impotenza terrificante.
“Acqua acqua ovunque -eppure non una goccia da bere“
“Il mare stesso imputridiva …sì, limacciosi oggetti con le zampe strisciavano / sul limaccioso mare“
Queste immagini, mentre studiavo questa Ballata per un esame di Letteratura inglese ,mi pietrificavano, ancor oggi se vedo il mare piatto, foschioso, sento giungere alla mente le immagini della vita che sembra fermarsi in modo malevolo.
Non solo la Natura, ma anche i compagni, morti di sete e di paura lanciano maledizioni al vecchio marinaio.
Infine appre una vela. La salvezza?
No, orrore dopo orrore. E’ una nave fantasma, il cui equipaggio consiste soltanto della “donna -spettro” e del suo compagno Morte che giocano ai dadi l’equipaggio.
Soltanto il vecchio marinaio sopravvive, solo, disperato, per sette giorni e sette notti finchè la luna sale nel cielo stellato  e una luce di calma pietosa illumina la nave.
Dalla sua solitudine e prigionia finalmente egli riesce a pregare, e l’albatro, che gli era stato appeso al collo come una croce, si stacca e cade “come piombo nel mare“
La maledizione per il momento è sollevata in seguito al riconoscimento della bellezza del cielo notturno pieno di stelle e persino dei serpenti d’acqua che circondano la nave. Il marinaio ha riconosciuto il “principio unitario della creazione” e così ha rimediato all’uccisione dell’albatro.
Riprende a piovere, gli spiriri dei marinai morti lo aiutano a ritrovare la rotta.
La maledizone non è cancellata  completamente per il marinaio che dovrà a viaggiare di terra in terra, narrare la sua storia e indicarne la morale.
Versi di quasi duecento anni fa, vividi, visionari, ma avvincenti tanto da essere incancellabili per il Lettore.
“La ballata del vecchio marinaio” è uno dei capolavori della letteratura romantica e come suggerisce Ginevra Bompiani, curatrice della stupenda traduzione di Mario Luzi “la ballata è la storia di una vocazione poetica: il marinaio sperimenta la morte nel corpo dei marinai, nel corpo della nave e del proprio; la sperimenta nelle membra, nell’anima e nello spirito; e tuttavia rimane vivo, perchè come ogni vero poeta è destinato ad attraversare la morte da vivo.”
Ah, poesia, lettura, immaginazione! Che compagni stupendi della nostra Vita!
Moby Dick o la balena, di Herman Melville
pubblicato da: admin - 9 Gennaio, 2011 @ 9:04 pm E per rimanere in ambito marittimo non poteva mancare un libro sul mare presentatoci dal nostro  marinaio Riccardo. Egli ci dice che parlerà soltanto della prima parte, ma credo sia più che sufficiente per invogliarci a leggere o rileggere questo capolavoro di Melville in cui la balena bianca rappresenta nel nostro immaginario l’odio per la paura o forse per la nostra debole umanità ? Quasi una biblica sfida alla divinità , una sorta di Hybris?  Per cui anche questo capolavoro ci offre tanto tanto da scoprire e da riflettere.Â
  Ed. Gli Adelphi
Traduzione di Cesare Pavese
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Ed io che lo credevo un libro per ragazzi …
Lo confesso. Tanti anni fa ne avevo letto un estratto ed avevo visto il film. Era il 1956, avevo dodici anni e il capitano Achab era Gregory Peck. Oggi, sollecitato dalla curiosità degli accenni degli amici del blog sto leggendo il “libro veroâ€. Ho iniziato l’impresa senza avere la matita in mano. Dopo poche pagine me ne sono procurata una. Giunto a pagina 241, ho deciso di fare un pit stop e di riflettere su questa prima metà circa dell’opera.
Il racconto è come una sinfonia. Sulla melodia di base (o almeno quella che credevi sarebbe stata tale e cioè la caccia alla balena, anzi, ad una balena) si inseriscono altre scritture musicali, alcune parallele, altre trasversali, alcune che precedono ed altre che seguono il tema di base. La vita di un marinaio baleniere, piccole perle di saggezza, riflessioni introspettive, pezzi di teatro stile Shakespeare, tentativi di analisi scientifiche, elementi di marineria e di navigazione a vela, solo per citarne alcuni. So che anche Stefania, bravissima musicista, sta leggendo questo stesso libro. La vorrei invitare a tradurre in termini più corretti questa mia sensazione “musicale†che mi ricorda un po’ la tridimensionalità di “Fantasia†di Walt Disney …
La mia preparazione di base sulla materia specifica (caccia alle balene) è scarna. Potrei citare il libro di Joshua Slocum, “Solo intorno al mondoâ€, primo circumnavigatore a vela in solitario dl globo. Nato esattamente 100 anni prima di me e cioè il 3 febbraio 1844 e morto non si sa quando, visto che dopo aver salpato le ancore per l’ennesima (ultima, ma lui non lo sapeva) volta, non se ne seppe più nulla. Il particolare che cito di lui è che affermava che “fiocinare dalla barca certi squali procurava lo stesso piacere che ammazzare un leoneâ€. Mi domando: perché fiocinare gli squali? Ed anche i leoni …
Una sera poi ero a bordo di una barca a vela di 14 metri che in assenza di vento procedeva lentamente, a motore, verso sud, al tramonto, in vista di Capo Corso. Io ero mollemente appoggiato all’albero, ed avevo in mano, quasi per una dimenticanza, la cinepresa. Improvvisamente un’enorme balena traversò pacificamente la nostra rotta 20 metri oltre la nostra prua. Riuscii a filmare la scena. Mi domandai e mi domando: cosa sarebbe successo se noi si fosse stati 20 metri più avanti?
Uccidere le balene … almeno 150 anni fa lo facevano con arpioni lanciati a mano da scialuppe a remi, non come oggi, con arpioni scagliati da cannoni posti a prua di moderne baleniere diesel …
Ma forse la contrapposizione Achab-Moby Dick è solo figurativa, voluta da chi, per vivere, deve crearsi un nemico, anche se non c’è. Quale vuoto infatti ai nostri giorni tanto per fare un esempio, ha lasciato la caduta del muro di Berlino! Ed ora, con chi ce la pigliamo? Con i “comunisti� Con la magistratura? Con i Paesi emergenti?
Il marinaio baleniere Melville – che strano cognome, francese? Ma il nome Herman sembra tedesco … eppure si imbarca a Liverpool … ma allora era inglese? – dicevo, il baleniere Melville ha una morale, e nemmeno mica male:
“Su questa terra il peccato che paga può andare in ogni luogo e senza passaporti, mentre la Virtù, se è povera, viene fermata a tutte le frontiereâ€.
“Gioia a colui che nella verità non dà quartiere … e distrugge ogni peccato, anche se tratto di sotto le toghe di Senatori e di Giudiciâ€. Come è attuale, non vi pare?
“L’anima non si nascondeâ€.
“Aveva l’aspetto di chi non aveva mai strisciato dinanzi a nessuno e mai avuto un creditoreâ€.
Il nostro marinaio ha anche una fede: “Adorazione è fare la volontà di Dio, cioè fare al prossimo ciò che vorresti fosse fatto a teâ€.
E poi “Al mondo non c’è qualità se non c’è contrasto. Nulla esiste in se stesso. Il caldo esiste perché esiste il freddoâ€. Ma allora io, mi chiedo: anche l’odio di Achab verso la balena esiste in quanto c’è chi ama le balene …
Ancòra: “Oh ambizione giovanile, stai attenta, qualsiasi grandezza mortale è solo malattia: tutti gli uomini tragicamente grandi sono tali attraverso qualcosa di morbosoâ€. Qui mi pare proprio attuale, politicamente attuale, intendo io (e voi?)
E poi si interrompe, manzonianamente, e ti racconta la vita di un selvaggio diventato fiocinatore.
Riprendendo il discorso “Un uomo totalmente privo di paura è un compagno molto più pericoloso di un vigliaccoâ€. E qui mi tornano alla mente i miei tanti compagni di scalate giovanili …
“E’ cosa dolorosissima e ripugnante metter in luce il crollo del valore di un’animaâ€.
“La dignità dell’Uomo si mantiene intatta anche quando sembrai perduto ogni carattere esternoâ€.
“ Di fronte a quel negro, un uomo bianco pareva una bandiera bianca venuta a chiedere una tregua ad una fortezzaâ€.
“Ogni cosa umana creduta completa deve per questa stessa ragione essere certo difettosaâ€.
“Qualunque sia la superiorità intellettuale di un uomo, essa non può mai assumere una supremazia sugli altrui senza l’aiuto di qualche artificio basso o meschinoâ€.
“Chi ha offerto un pranzo ad amici ha assaporato cosa significhi sentirsi Cesareâ€.
“Ciò che si dice nell’ardore, si disdice da séâ€.
Quando poi viene a parlare della “testa d’albero†cioè della sommità degli alberi dei velieri, Melville supera se stesso. Le prime “teste d’albero†infatti per lui sono state la Torre di babele, le piramidi d’Egitto, le colonne degli stiliti, le posizioni occupate da personaggi che stanno in alto, molto in alto, i moderni abitatori delle teste d’albero, uomini di ferro o di pietra che mai risponderanno ad un richiamo dal basso: non vi sembra qui che Melville stia descrivendo una certa nostra classe politica?
E il capitano Achab, che impiega ben 191 pagine prima di entrare in scena: “Le onde invidiose si gonfiano ai lati per sommergere la mia traccia: facciano pure., ma prima io passoâ€. Il monologo di Achab è un po’ come quello di Amleto: essere o non essere, o come quello di Fazio e Saviano; restare o andare via …
L’immortalità … della balena o di Achab? “L’immortalità è soltanto l’ubiquità nel tempoâ€.
“Tra i Romani una pietra bianca segnava un giorno feliceâ€. Albo signanda lapillo, giornata così bella (e rara) da contrassegnarsi con un lapillo bianco (raro, in quanto normalmente è nero. Ma non era un semplice marinaio Melville?
Stante le morti che la caccia alla balena procurava fra i marinai, Melville ci invita a risparmiare l’olio delle lampade che se ne ricava, se non altro per rispetto di quelle morti. E che dire dei nostri giorni … quanti minatori devono morire prima che noi ci decidiamo ad usare con parsimonia le risorse che essi producono?
Ecco, sono arrivato a pagina 241 del libro. Ho scritto, almeno così non mi dimentico i passaggi e le considerazioni che volevo sottoporvi..
Nel frattempo … averne … di marinai come Melville!
Riccardo Lucatti
LE ONDE, e il ritmo del mare
pubblicato da: admin - 8 Gennaio, 2011 @ 8:13 pmPenso all’acqua e al suo fluire. La nominiamo spesso parlando di libri e della nostra vita. Anche Virginia Woolf ha intessuto un romanzo intorno al mare portandoci a St. Ives, luogo delle vacanze dell’infanzia e paesaggio introiettato nella sua poetica da cui partire per raggiungere il faro, in cui fermarsi per sentire il rumore del mare che fugge e ritorna in modo ritmico.
Anche la vita è  come l’acqua che scorre, ma non è sempre uguale. Tutto è mutevole: il fluido e il  solido, basta soltanto un cambiamento della luce dei vari momenti del giorno per ritrovarci in mille attimi e percezioni diversi. Come nelle diverse cattedrali di Rouen dipinte da Monet.
E’ poesia in prosa questo romanzo del 1931, quasi un contrappunto per sei voci soliste, Bernard, Rhoda, Jinny, Susan, Neville, Louis che inquisiscono, parlano tra sè sulla vita, la passione, la morte. Gli elementi ispiratori furono i suoi amici: da Ethel, Vita Duncan a sua sorella Vanessa che le fecero vivere un’estate agitata durante la quale ebbe anche un malore fortissimo, un “breve incontro con la morte” come lo definisce lei.
Vuole dunque terminare The Waves per riepilogare “la nostra situazione. Una mappa del mondo.” Riesce a lavorare in modo regolare. Pur passando un momento di disistima come scrittrice scrive nel suo diario “sono sempre più soddisfatta della libertà di movimento, dell’autonomia, della possibilità di mangiare la mia cena a qualsiasi tavolo dopo averla preparata. Questo ritmo (dico che sto scrivendo The Waves secondo un ritmo, non secondo un intreccio) è in armonia con quello dei pittori. Tranquillità , trascuratezza, felicità sono quindi tutte assicurate.”
Il romanzo è diviso in nove parti, nove soliloqui tra cui l’ultimo, quello di Bernard sembra compendiare tutte le altre voci. Nonostante Virginia nel suo diario abbia accennato a un ritmo tranquillo di lavoro nella stesura di questo lavoro appaiono a fasi alterne i dubbi, la fatica, la febbre, lo sconforto. La coinvolge particolarmente il soliloquio di Bernard che vuole “svolgere in modo da spezzare la prosa, scavarla in profondità , farla muovere -sì, lo giuro – come non si è mai mossa finora; dalla risatina, dal balbettio, alla rapsodia…”
Che emozione leggere i pensieri della creatrice-scrittrice  che come creta prende tra le sue “mani” le parole e i sentimenti e ci dona un capolavoro!
E il momento creativo è sempre sofferenza per l’artista, ma attraverso illuminazioni, squarci, catarsi essa  riesce alfine ad esprimere la propria esaltante ed appassionante intuizione.
Sembrano qui confluire tutti i motivi della sua poetica: la lettura, frantumata in ritorni tematici, il paesaggio amato nella sua mutabilità fissa attraverso l’eterno risorgere del sole che determina variazioni gioiose e dolorose di intermittenza tra luce ed ombra; e soprattutto la “condanna” dell’ascolto delle sue “voci” interiori che la torturano nel profondo ma che a noi ci giungono ricche e poliedriche con echi femminuili, maschili , di poesia  e di follia.
E la sua luce, le sue illuminazioni che sgorgano dall’ombra, sono momenti intensi in cui, insieme a lei, anche noi Lettori riusciamo sia a scorgere l’essenza della vita  sia ad abbracciare con la sua parola l’estensione lirica dell’essere: Il “momento d’essere”. Moments of being.
Mare, onde, ritmo.
Anche noi siamo Onde che nasciamo e torniamo nell’indistinto Mare. Nostro padre, come scrive Montale parlando di Esterina? Nostra madre perchè ci dà la vita? Nostro Tutto?
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LUDVIG, di David Albahari
pubblicato da: admin - 7 Gennaio, 2011 @ 10:11 pmE’Â per me il primo romanzo di uno scrittore serbo questo “Ludvig”, un intenso e drammatico monologo sul rancore o forse sull’irrisolutezza del proprio Io?
Certo che David Albahari  ci presenta in modo  chiaro un’ autodistruttiva crisi d’identità del protagonista narrante che incolpa di tutto un suo ex-amico, Ludvig.
Entrambi scrittori belgradesi, un tempo inseparabili, ora divisi da un odio incontenibile.
Non si può fare a meno di ripensare a Il soccombente di Thomas Bernhard dove due amici musicisti rinunciano alla musica e alla carriera  rendendosi conto del talento sovrumano del loro terzo amico, nel quale si ravvisa Glenn Gould quando interpreterà le Variazioni Goldberg.
Siamo nel mondo dell’arte, paradigma alto della nostra vita in generale? Se vitali sono il successo e la fama quanto può influire rovinosamente il fallimento?
Ludvig meno talentuoso dello scrivente del quale non abbiamo neppure il nome -come una sorta di  beffa del suo soccombere e cancellarsi  in toto – è un vanaglorioso, un prepotente e subdolo personaggio che riesce ad irretire da esperta star mediatica il pubblico. Riesce a condurre i lettori a credere ciò che egli vuol far credere di sè, cioè che egli è il migliore, è colui che ha cambiato la letteratura di Belgrado, è un vincente. E’ stato invece il narratore che ha creato e dato le nuove idee  letterarie a Ludvig, che lo ha aiutato a diventare famoso e  che subito dopo   è stato tradito ed  emarginato dall’intellighenzia belgradese. E’ un perdente di talento ed il suo rancore, la sua rabbia verso Ludvig e verso una Belgrado un po’ kitsch che crede senza pensare troppo ai mass media e agli spavaldi lo fanno precipitare in una profonda  crisi creativa ed esistenziale.
Ludvig continua a schiacciarlo sadicamente con facilità , corteggia le sue debolezze, lo distrugge con eleganza. Durante una grottesca intervista televisiva ai due scrittori si stigmatizza per sempre il ruolo predominante di Ludvig e quello del soccombente narratore paralizzato dall’incredibile falsità di Ludvig.
Lo consola soltanto che il nemico, pur più giovane di alcuni anni, sembri più vecchio di lui “Gli sta bene, è giusto che sia vecchio come una suola consunta, come un uovo marcio, come un ciottolo levigato in un torrente di montagna”.
Un monologo ininterrotto che invita a una  lettura quasi senza respiro. Le pagine si susseguono senza alcun breve spazio  bianco.Â
 Si narrerà dell’acquisto di una pistola e dell’appropriazione indebita di un libro mai scritto.
In questo incalzante  intreccio Belgrado appare “feroce e umanissima”, prepotente e millantatrice,  una cornice perfetta per questo “gioco” perverso che talvolta sembra persino irreale.
Ma lo scrivente è obiettivo nella sua apologia dell’Odio?
O è ottenebrato dal rancore e dalla sua incapacità di fronteggiare il traditore  più astuto, subdolo e aggressivo di lui? E’ forse solo odio verso se stesso per la propria inadeguatezza o mancanza di coraggio?
David Albahari è nato nel 1948 nel Kosovo, da famiglia ebraica. Ha vinto moltissimi premi letterari e da anni vive in Canada.
Questo suo breve e forte romanzo ci invita a riflettere sulla nostra personale battaglia per raggiungere l’equilibrio, l’accettazione di noi, un’obiettiva e serena autostima.
 Viene da chiederci : riusciamo a non tener conto degli altri?
Talvolta succede di incontrare persone che ci fanno apparire peggiori di ciò che siamo, che ci sollecitano sentimenti negativi.
 Che fare in questi casi? Fuggire? Affrontare? “Sollevarsi?”
Il pericolo è come succede al protagonista, quello di farsi fagocitare da un Odio quasi vitalizzante nella sua distruttività .
Scriveva Thomas Eliot degli uomini che non smettono mai di masticarsi dentro “quelli che all’interno hanno soltanto cavità , che si divorano dal di dentro finchè non rimane più niente, e allora vanno in giro come scheletri, involucri che camminano.”
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I PONTI DI MADISON COUNTY, dal libro al film
pubblicato da: admin - 6 Gennaio, 2011 @ 8:46 pmDi che cosa scrivere oggi, dopo i  bellissimi e lusinghieri  commenti che avete fatto al mio post su Banville?
Già qualcosa mi serpeggiava stamattina mentre bevevo il caffè. Ripensavo al film visto ieri sera “Gosford Park”. Ma non è stato tratto da un romanzo. E per ora fino al giorno della fine della  mia sfida “un libro al giorno” devo parlare di un libro.
 Poi, come suggerisce Raffaella, mi piacerebbe ampliare le nostre riflessioni anche al cinema o ad altre forme d’arte che  potranno suggerire nuovi pensieri esistenziali  da condividere…
Ed ecco che  proprio ora,  mentre stro scrivendo, la Tv trasmette  il romantico film “I Ponti di Madison County” tratto dall’omonimo romanzo di Robert James Waller che io lessi durante un’estate di tanti anni fa. Credo di saperlo a memoria: la storia d’amore tra Francesca sposata ad un agricoltore della Iowa e Robert Kinkaid, fotografo del National  Geographic Magazine, è una storia che fa sognare. Un amore che dura soltanto cinque giorni ma che è intenso e perfetto. Un amore utopico. O forse no?  Dolcezze reciproche, rimpianti di non essersi incontrati prima, consapevolezza che loro due sarebbero state le perfette due mezze mele. Ma il senso del dovere, l’amore per i figli e la tenerezza per un buon marito faranno sì che Francesca rinunci al suo Sogno. Lo racconta però  in un diario che verrà scoperto, dopo la sua morte, dai figli. E’ ciò che lei desiderava: che la sua storia del Grande Amore venisse finalmente riconosciuta come parte di se stessa.
Ricordo che fu Bruna, la mia amica più “grande” a prestarmi il romanzo ed insieme sulla sua terrazza ligure  piena di fiori e farfalle, sorseggiando la sua bevanda al sambuco, parlavamo dell’amore romantico così perfetto da sembrarci una chimera.
Se poi in quei giorni  mi capitava di discutere con Piero gli dicevo arrabbiata ” Vorrei tu fossi come Robert Kinkaid!” . E lui mi guardava stupito con i suoi profondi occhi da principe arabo e senz’altro avrà pensato che in quel momento agisse in me “il gemello scemo” ( Sono del segno dei Gemelli)!
Il film è struggente, fa piangere come il libro, gli attori sono superbi. Meryl Streep e Clint Eastwood, un po’ appassito, ma sempre intrigante.
 In realtà volevo parlare di “Gosford Park” ,un film del 2001 diretto da Robert Altman che si ispira al romanzo giallo  deduttivo della tradizione inglese,  la parte dell’omicidio sembra tratta da un romanzo di Agatha Christie. Ma la storia è nel complesso una denuncia  del rigido sistema di classi dell’Inghilterra inizio Novecento.
Siamo in una bellissima villa della campagna inglese esattamente nel 1932 quando i proprietari invitano per una battuta di caccia moltissimi ospiti con le loro cameriere e valletti personali.
L’intreccio svela intrighi e relazioni sessuali anche fra nobiltà e servitù. Compare persino un personaggio realmente esistito, l’attore Ivor Novello.
Film bellissimo, ma amaro e che fa ribollire di sdegno chi desidera (e desidera ancora invano) l’uguaglianza.
I ruoli sociali inglesi dell’epoca, in questa descrizione di  inizio declino dell’impero britannico, sono oggigiorno  finalmente  scomparsi?
 I privilegi ostentati per cui c’è bisogno per sentiri fortunati e “migliori” di avere vicino persone subordinate da vessare mi fanno ribollire.
Le nobili e ricche dame che si fanno servire il tè in macchina dalla piccola cameriera che per questo rimane sotto la pioggia scrosciante mi fa andare su tutte le furie. E qual è il discorso predominante di tali “Gentildonne”? Proprio la Servitù.
Stamattina durante la Rassegna stampa di Radio Tre sentivo chiedere dov’era, se mai c’è stata, la famosa Uguaglianza…
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IL MARE, e la profondità della vita
pubblicato da: admin - 5 Gennaio, 2011 @ 8:10 pmAffrontare un romanzo di John Banville è immergersi in più strati di emozioni, suggestioni e spesso pericolose rivelazioni anche per il Lettore. Banville riesce con la sua prosa che indulge in virtuosismi affascinanti a portarci nei nostri più intimi recessi.
Il mare non è solo quindi il luogo di una fondamentale esperienza adolescenziale del protagonista, ma rappresenta , a mio parere, il mistero dell’abisso, l’indistinto dal quale proveniamo e nel quale ritorneremo.
Max Morden è un vedovo, ormai anziano, che cerca di fuggire dal dolore della morte della moglie, della malattia, dei progetti sospesi e tenta tornando nel luogo mitizzato della sua adolescenza di ritrovare parte di se stesso.
I ricordi arrivano vividi anche se ormai non corrispondono più,  ormai lo “sguardo” è diverso. Morden passeggia ancora sulla spiaggia dove tanti anni prima una giornata particolare ha segnato fortemente le sue vacanze d’allora. Tutto girava intorno all’affascinante ed ambigua famiglia Grace. Da un’iniziale attrazione sensuale per la madre Claire , all’innamoramento per la figlioletta Chloe . Pagine degne di un pittore la descrizione del pic-nic con la famiglia Grace: verdi declivi, ombre di pini, pennacchi di nuvole di mare, rami lambiti dal sole , un’atmosfera di primi turbamenti sessuali “Tuttavia, quella giornata di licenziosità e allettamento proibito non era ancora conclusa. Mentre la signora Grace, distesa là sul declivio erboso…”
Tutto attrae in modo morboso il giovane Morden, il gemello di Cloe, Myles muto e  dai piedi palmati, la giovane governante Rose, il signor Charles che, sornione, come un Poseidone attento, controlla la vita dei suoi familiari.
Ma qualcosa di terribile accade in quell’estate. Una morte segnata da un  oscuro segreto che Morden cerca adesso, tornando sul luogo del passato, di risolvere insieme ai suoi mille nodi esistenziali cristallizzati.
Sembra che la sua vita inizi da quella lontana vacanza al mare e termini ora nella consapevolezza della vecchiaia che incombe. Quasi che la sua vita in mezzo a questi due periodi sia stata ibernata.
Insomma il tempo  passato e quello presente viene  “tirato” come un elastico, il ricordo di ciò che si è vissuto va di pari passo con la metacognizione che tutto non dura e che forse ciò che si ricorda non si è vissuto veramente tutti protesi ad analizzare che tutto passa e forse non esiste.
“E perfino anni prima di questo, mentre per esempio stavo con la signora Grace in quel soggiorno illuminato dal sole, o sedevo insieme a Chloe al buio del cinematografo, ero e non ero lì, me stesso e spettro, imprigionato nel momento eppure in qualche modo sospeso, sul punto di partire. Forse tutta la vita non è altro che una lunga preparazione a lasciarla.”
Eccezionale Banville che come un giocoliere mescola parole e suggestioni in modo magistrale, e come tale riesce anche ad incantare noi Lettori che sprofondiamo  insieme a lui dove ci vuole portare.
Adoro gli scrittori che scavano, ci punzecchiano, ci sollecitano a riflettere sulla vita, sulla morte, sulla vecchiaia perchè tutto ciò è VITA. Non mi piace rimenere sempre in superficie, adoro tuffarmi anche se rischio di affogare.
* * *
Come feci tanti anni fa in Corsica. Non sapevo ancora nuotare. A quel tempo avevo accompagnato un gruppo in vacanza (eh, sì ho fatto anhe l’accompagnatrice turistica!)
Ebbene nella bellissima piscina dell’albergo un certo Alfredo mi disse che se mi fossi buttata , anche senza saper nuotare, sarei ritornata  a galla. Io credo generalmente a quasi tutto quello che mi dicono: mi buttai quindi  immediatamente nella parte più profonda, ma non venni  a galla. Non era  acqua di mare. Mi rivedo annaspare  con il mio costume arancione nel fondo della piscina blu.
Meno male che l’Alfredo si buttò repentinamente e mi ripescò. Subito dopo imparai a nuotare, solamente  a rana, ma almeno ora riesco a stare a galla.
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IL SIGNOR MANI, di Abraham B. Yehoshua
pubblicato da: admin - 4 Gennaio, 2011 @ 8:42 pmPietro Citati ci presenta questo capolavoro così ” Il signor Mani rappresenta il grande corpo sensuale dell’ebraismo, profumato di spezie e di disperazione…Uno dei libri più belli della letteratura contemporanea.”
Si snoda in cinque dialoghi a volte con parti mancanti perchè parte della conversazione è fatta al telefono. Sta al lettore agire, diventare attivo e partecipare al detto e al non detto.
Ci sono tanti signor Mani in questa saga familiare che racconta di cinque generazioni di ebrei: dal patriarca Abraham vissuto ad Atene nella metà dell’Ottocento al giovane soldato Efraim che combatte in Libano nei primi anni Ottanta. Attraversiamo così due secoli di storia ebraica ed insieme ai protagonisti ci poniamo il quesito se un uomo può spezzare la catena che lo lega al passato e al futuro o ancora se si può annullare la propria identità .
Perchè presento questo libro? Perchè domenica sono andata a trovare il signor S., un ex-alunno adulto che ha seguito il mio corso di alfabetizzazione. Ne avevo parlato in novembre.
Ebbene il signor S. con il suo fisico minuto e asciutto, la barbetta grigia, il cappelluccio che indossa per uscire, i suoi occhi brillanti di intelligenza mi riporta alla mente il classico ebreo russo. Ed invece il signor S. è cristiano ortodosso,  georgiano e fierissimo di esserlo. Certamente non succederà come nel romanzo che si chiederà se può “dimenticare di essere …georgiano.”
Il suo orgoglio si palesa nelle cartine attaccate al muro , nel sottolineare che la sua lingua è unica, con un suo precipuo alfabeto scritto  che non ha niente a che fare ne’ con il cirillico ne’  con il nostro.
Entrare nella sua casa semplice e decorata con alcune palline natalizie, la bandiera della Georgia, essere accolti da lui con il baciamano, da sua moglie N. con abbracci è stato per me, Stefania e Marco entrare in un mondo diverso o forse solo  dimenticato. La semplicità del calore e  della spontaneità generosa, dell’amicizia aperta che  spinge a raccontare molto di sè , ci hanno avvolti ed incantati.
La tavola imbandita di pizza georgiana, (ottima focaccia con formaggio), torte varie e poi in rapida successione caffè e tè hanno accompagnato il loro desiderio di comunicare, di spiegarci perchè si trovano in Italia. Meglio l’Italia piena di storia che gli U.S.A. che non ne hanno, meglio il Trentino piuttosto della Sardegna perchè… – e qui abbiamo riso parecchio nonostante l’italiano stentato del signor S. –  perchè i sardi sono troppo piccoli.
Nel frattempo ci veniva mostrato un video della festa sontuosa per il compleanno della nonna a Tiblisi dove abitavano. La signora S. bellissima e florida leggeva una sua  poesia sulla rosa in georgiano e tutti apparivano belli e felici. Chissà perchè sono arrivati qui.
Questo non ci è stato raccontato esattamente.
Ciò che abbiamo ricevuto è stato un calore di altri tempi, vero, prezioso. Ed un intendimento rapido, senza sovrastrutture, percepito negli sguardi intensi,  franchi e  coraggiosi di questa coppia che nella sola mezz’ora di preavviso della nostra visita aveva preparato quasi un banchetto.
BRIEFE AN MILENA, di Franz Kafka
pubblicato da: admin - 3 Gennaio, 2011 @ 8:20 pmLa prima  vera lettera che Franz Kafka scrisse a Milena Jesenka Polak è datata aprile 1920 e reca l’intestazione della Pension Ottoburg di Maia Bassa, Merano.
Quante persone celebri hanno soggiornato nella mia città natale!
Ci pensavo ieri mentre con Stefania e Marco passeggiavo in un luminosissimo Lungo Passirio verso il Tappeiner e le Gilf.
Ricordo anche che mio padre diceva con orgoglio di avere un giorno aspettato l’autobus con Ezra Pound! Â
Parlo dunque di questo libretto acquistato a Monaco di Baviera quando cercavo di imparare il tedesco. Le prime pagine hanno appunti, traduzioni di parole, le ultime invece sembrano intonse. Probabilmente la lettura della corrispondenza devo averla conclusa in italiano.
 Franz e Milena si sono visti poche volte, ma ciò che si scrivono nelle tantissime lettere è molto intenso. Kafka giunto a Merano per curare in un clima più mite di quello di Praga la propria tubercolosi scrive subito due lettere a Milena, la giovane ceca che si era offerta di tradurre i suoi racconti.
L’aveva vista soltanto una volta nell’ottobre del 1919, ma da subito egli le  si rivolge con rapidità e naturalezza, come se l’avesse conosciuta da sempre. Kafka le confida i grandi segreti della sua vita: la tubercolosi, la spiegazione psicologica della tubercolosi “Sono malato di mente, la malattia polmonare è soltanto uno straripare della malattia mentale.”, il Processo al quale si era sottoposto, i suoi fidanzamenti, il suo senso di colpa.
Nelle lettere le due anime si accendono di “passione”, la divisione li tiene uniti più che la vicinanza.
Così Kafka nella sua piccola camera d’albergo di Merano o quando si affaccia al balcone vede Milena nelle nuvole, sente la sua vicinanza “…Lei è qui esattamente come me e più ancora; dove sono io è Lei, come me e più ancora”.
Per Kafka Milena diventa presto “la Madre”, nella realtà e molto nella sua immaginazione essa incarna tutte le qualità materne desiderate: l’equilibrio, la calma, la fiducia , la chiarezza, la forza di verità , l’intelligenza chiaroveggente, la dolcezza che allontana la sofferenza. Ma presto diventa anche la figura simbolica opposta: la casta luna, irraggiungibile nella sua lontananza, la fanciulla vergine, la Bella – opposto a lui, oscuro “animale dei boschi”-.
Insomma la loro relazione per lo più epistolare si trasforma in timore, gelosia,angoscia. Kafka non riesce a gestire un tale rapporto. Milena stessa non riesce con lui ad essere ciò che la stabilizzante Lou Salomè fu per Rilke.
Kafka, forse da sempre  Gregor Samsa, ha “nostalgia di qualche cosa”, di “un nutrimento sconosciuto” ” Sporco sono, Milena, infintamente sporco“. Si sente vivere nell’oscurità , nel sottosuolo. Milena , la Bella, è la sorella di Gregor Samsa, colei che gli porta il cibo, in una comunicazione silenziosa.
E neppure la dolcezza di Merano, dei suoi alberi, delle sue acque chiare consolano il più enigmatico scrittore della cultura del Novecento.
Io, invecee, ieri ero nel luogo della mia infanzia e della prima giovinezzza. Ho rivisto il caro cugino, mi sono immersa in quella luce algida d’inizio Gennaio, assaporando al sole, il breve tremito delle palme e dei cespugli. Il Kursall color dell’oro si stagliava nell’azzurro limpido, la principessa Sissi in ombra aveva sempre intorno giovani ammiratrici, la Winter Promenade ha regalato bellezza e ricordi.
E al ritorno verso casa, una sosta ad Egna, magica nel suo silenzio ghiacciato e una visita a due persone speciali…che ci hanno aperto la casa con un calore spontaneo di altri tempi e d’altri luoghi.
Ma di questo parlerò un altra volta insieme al libro che si è automaticamente collegato a ciò…
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