L'ANNO DI NOI DUE, di David Gilmour

pubblicato da: admin - 7 Giugno, 2011 @ 7:12 pm

scansione0001Che romanzo particolare e bello e intenso! Scelto dal solito tavolo espositivo della nostra Biblioteca perchè parla di cinema.

Films che accompagnano  un anno difficile di un figlio adolescente. Ma ci si accorgerà presto che il periodo difficile lo è anche per il padre premuroso, attento, a tratti persino invadente” nei confronti del suo ragazzone diciassettenne, simpatico a tutti ma che soffre, soffre terribilmente ad andare a scuola.

David Gilmour, documentarista e critico cinematografico,  racconta una storia vera: di se stesso che in un momento di stasi lavorativa osserva “al miscroscopio” il malessere del figlio  Jesse che fatica a studiare, che soffre nel doversi mettere a tavolino ed eseguire i compiti.  “ Un pomeriggio…mentre il tempo si trascinava lentamente, mi accorsi di un leggero sibilo nella stanza. Da dove veniva? Da lui, da Jesse. Ma cos’era? Lo studiai. Era una specie di sbuffo, appena accennato; era la certezza dell’inutilità di ciò che stava facendo. Per una strana forma di osmosi provai io stesso quella sensazione.”

Con coraggio incosciente, con amore viscerale David propone al figlio di lasciare la scuola : “Se non vuoi più andare a scuola, non sei costretto a farlo”

 Jesse è un bravo ragazzo, ubbidiente, che vuol far contenti i genitori, ma a questa inaspettata domanda scatta in piedi, emozionato,  ” Mi permetti di abbandonare la scuola?”

C’è un contratto però da rispettare: guardare insieme tre films a settimana. Film scelti ad hoc dal padre che  in questa “educazione cinematografica” insegna al figlio a diventare grande.

Scelta come dicevo coraggiosa da parte del padre che evidentemente nel torpore mesto del figlio ha riconosciuto parte di se stesso e con un’incredibile preveggenza gioca d’azzardo sul futuro del figlio.

Mi chiedevo leggendo se questo padre non fosse infantile egli stesso, se avesse potuto aiutare  invece il figlio lasciandolo “crescere” da solo, ma alla fine ho dovuto dargli ragione. Il suo intuito, la forza della sua passione e per il figlio e per il cinema riescono a far trovare la strada più adatta a Jesse. Così facendo David “perderà” il figlio che , scoperto finalmente ciò che ama fare, inizierà da solo un capitolo nuovo della sua vita.  Devid pensa  amaramente ” I figli passano la vita ad andarsene” e ricorda con struggente nostalgia il loro film club quando il  divano di casa era diventato  “la scuola”, la complicità, la condivisione, l’insegnamento del “vecchio” al giovane.

Quanti bei film vengono analizzati!  Da Truffaut a W.Allen, da Herzog alla Dolce vita di Fellini, da Scorsese a Hitchcock tutti infarciti di aneddoti, curiosità e divagazioni che mettono a nudo  il cinema sia come Grande Illusione, sia come grande emozione della vita vera. Diceva Groucho Marx “Preferisco guardare un film che vivere. Almeno nei films c’è una trama…”

Come i libri anche i bei film possono aiutare a dirimere i nodi ingarbugliati delle proprie esistenze e a donare consolazione, ricchezzza, divertimento.

E’ deliziosamente spassoso quando i due  divorziati genitori di Jesse parlano  di questa nuova “scuola” che il figlio  sta seguendo con interesse, turbamenti, identificazioni. A seconda di ciò che sta vivendo il ragazzo il padre gli propina il film giusto e lo fa con una passione travolgente. Lo aiuterà a superare le ricorrenti crisi amorose, le depressioni, i momenti di sbornie.

La scena finale della Dolce vita con Mastroianni che cammina sulla sabbia a piedi nudi, la ragazza che lo chiama da lontano…lui che non vuole capire, e poi lo sguardo della giovane rivolto agli spettatori che sembra chiedere  “e voi, cosa volete fare della vostra vita?” aiuterà moltissimo Jesse in uno sei suoi fondamentali momenti di ricerca del sè.

E nelle pagine finali, nascosto nell’oscurità di un locale alternativo  per ascoltare  il figlio cantare e suonare nella sua Band, David  farà  riecheggiare nella sua mente le parole di uno dei suoi film preferiti “Una vita al massimo”:

Sei il mio eroe, sei il mio eroe, sei il mio eroe.”

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IL QUINTO GIORNO, di Frank Schaetzing, Tea Ed.

pubblicato da: admin - 4 Giugno, 2011 @ 6:13 pm

cop[1]E sempre a proposito di acqua e di ambiente, insomma del nostro amato pianeta trattato in modo così ingrato, prendiamo nota  di un interessante libro letto da Riccardo 

 

Mio figlio Edoardo, (comunicatore di professione e per me comunque una vera e propria garanzia intellettuale e letteraria), dello stesso autore fondatore della prestigiosa agenzia pubblicitaria “Intevi”, mi aveva regalato “Il mondo d’acqua”, (La Feltrinelli, gradevolissima ricostruzione della storia della vita sulla terra). Ed allora questo qui, visto in libreria, me lo sono comperato al volo: dopo tutto 1021 pagine per 12 euro, ma dove ne trovo un altro? (Riccardo, nato a Genova … buon sangue non mente).

Vasto, come il mare che descrive … fra l’altro ci introduce nel mondo dei pescatori peruviani e degli esquimesi e già questo sarebbe un buon motivo per leggerlo. Ma vi è molto di più: geologia, geografia, soprattutto biologia. Su tutto ciò si innesta un giallo “umano” in ambiente scientifico, militare e fantascientifico ma non troppo. Io non amo i romanzi di fantascienza. Ma questa volta si tratta di una fantascienza marina per di più orchestrata su solide e documentate basi scientifiche. Una fantascienza che tuttavia rimane ai margini del racconto, che è tutto umano. L’autore ci descrive il nascere e la forza dello tzunami: il mistero (svelato) della fossa delle Bermude; lo sfruttamento delle risorse petrolifere dai fondali marini (ma dello scempio ambientale della piattaforma petrolifera nel golfo del Messico, non si sa più nulla?); gli idrati di metano, i quali, ghiacciati, sul fondali marini fanno da tappo (ma fino a quando?) ad immensi giacimenti di metano; il rapporto fra i maremoti e la stabilità (precaria) delle zone costiere continentali; ci spiega come non sia vero che le risorse petrolifere stiano per esaurirsi, ma che piuttosto fra non molto l’estrazione del petrolio costerà, in termini di energia necessaria, più di quanto non se potrà ricavare dal petrolio estratto, e molto altro ancora.

I capitoli sono brevi, ognuno caratterizzato dal nome della località ove si svolge l’azione o dal principale personaggio coinvolto.

Lo stile è semplice e chiaro. Le analisi ed i ragionamenti che i personaggi (rectius, l’autore) fanno sono molto approfonditi: quelli “biologici” poi si leggono volentieri anche se non li si comprendono del tutto (a meno di non essere degli ottimi biologi), ma non importa, ciò non impedisce la comprensione del ragionamento e della vicenda.

Siamo certi di essere i soli abitanti cosiddetti intelligenti dell’universo? Ma se è infinito, quali garanzie abbiamo per affermare una cosa simile? Ora, se riflettiamo sul fatto che conosciamo le profondità marine meno dello spazio … vedete un po’ voi se non è lecito immaginare l’esistenza di qualche cosa “in più” rispetto alla solita Moby Dick …

Un giallo, una guerra degli uomini, attaccati da forze “occulte”, le forze “del male”: ma poi, dove si annida veramente “il male”? Negli “altri” o in noi? Chi ha invaso chi? Chi sfrutta e violenta chi? Per uscire dal romanzo, come potremmo chiamare “cattiva” o “nemica” la valanga che noi stessi stacchiamo dalla montagna facendo sci alpinismo dove e quando non sarebbe consigliabile?

Alla base di tutto una riflessione di fondo: il mondo che abbiamo ricevuto non è una eredità da sperperare, ma un bene da preservare per le generazioni che seguiranno. E poi: oltre a noi, ci sono gli Altri, sperando che anche gli Altri vedano noi sotto la stessa luce di “loro Altri”.

Ha venduto oltre due milioni e mezzo di copie, nel mondo. Ci sarà pur una ragione!

Riccardo

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COLLASSO, come le società scelgono di vivere o morire

pubblicato da: admin - 30 Maggio, 2011 @ 9:12 pm

Stasera sull’onda gioiosa del cambiamento  e con  il desiderio di ritrovare la via giusta per vivere con  buon senso e con  i valori   importanti   che da più di un decennio  sono stati trascurati da molti, lascio spazio al giovane Luigi  che ci presenta un interessante libro.

 Che bravi  e saggi questi giovani, non solo il nostro amico Luigi, ma anche quelli milanesi…

cop[1]di Jared Diamond

 

«Oggi la gran parte di noi occidentali può permettersi di condurre un’esistenza piena di sprechi. Ma in questo modo dimentichiamo che le nostre condizioni sono soggette a fluttuazioni e che potremmo non essere in grado di anticipare quando il vento cambierà. A quel punto saremo ormai troppo abituati a uno stile di vita dispendioso, per cui le uniche vie d’uscita potranno essere una drastica riduzione del nostro tenore di vita o la bancarotta».

 

Ho scelto di parlare di questo testo, oltre perché è da un po’ di tempo che non mi faccio più sentire su questo blog, anche per il motivo che fa parte del materiale che dovrò portare al mio primo esame della sessione estiva, quello di geografia.

In un mondo dove l’ambiente è sempre più in primo piano nella vita di tutti noi (un esempio fra tanti: l’eruzione di un vulcano in Islanda che rischia di nuovo di paralizzare il traffico aereo europeo), è interessante questa lettura perché ci porta molti esempi a sostegno della tesi che l’ambiente è, se non il fulcro, quantomeno una parte che ha molta importanza non solo nella vita di ognuno di noi, ma potrebbe addirittura segnare il nostro destino, e portarci appunto al collasso.

E’ questo il senso della citazione-incipit: “noi” del mondo occidentale, ricco, sviluppato, conduciamo una vita, se ci pensiamo, piena di sprechi, nella quale siamo abituati a tutto, e subito. Il problema consiste, a mio parere, nel fatto che abbiamo una visione ristretta delle cose: abbiamo sempre le dispense con un surplus di cibo, la macchina sempre con il pieno di carburante, se azioniamo l’interruttore illuminiamo una stanza, un edificio, un monumento ecc., se scriviamo una lettera o un documento e ci accorgiamo di aver fatto un errore, abbiamo sempre un nuovo foglio di carta, quando i nostri mobili sono vecchi e consumati, li cambiamo con mobilia nuova, liscia e lucente… e gli esempi potrebbero continuare. Ma non ci accorgiamo che quel surplus di cibo che abbiamo è uno spreco (perché non ci serve subito, perché miliardi di persone ne avrebbero bisogno), il carburante che fa funzionare le nostre vetture deriva da un materiale che è presto destinato a scomparire e i cui costi, anche ambientali, sono sempre maggiori, la luce che usufruiamo è prodotta sempre con lo stesso materiale da cui deriva il carburante, la carta che sfogliamo e che usiamo potrebbe derivare da foreste protette o in pericolo (le foreste sono i nostri polmoni, oltre a conservare habitat a volte sorprendenti) e il legno con cui sono prodotti i nostri mobili potrebbe derivare sempre dalle stesse foreste. Ma se l’equilibrio su cui tutto questo si basa è così altamente fragile, qual è il destino che ci aspetta? O una drastica riduzione del nostro tenore di vita, o il nostro collasso.

Abbiamo però un asso nella manica: ci sono noti degli esempi del passato, dai quali possiamo trarre insegnamento. E i cui casi sono molto interessanti.

 

Dice Diamond: «La gente mi chiede perché io abbia deciso scrivere un libro del genere. La mia risposta è che si tratta dell’argomento più affascinante che esiste. Tutti noi siamo affascinati dai tempi abbandonati Maya ormai inghiottiti dalla giungla o dalla civiltà sorta sull’Isola di Pasqua. Perché questi popoli si sono dati la pena per costruire in luoghi così remoti per poi abbandonarli o distruggerli? Ultimamente si è scoperto che lo hanno fatto per motivi ambientali […]. La questione più rilevante trattata nel libro è che non tutte le civiltà sono andate in rovina, alcune società sopravvivono a lungo perché sono riuscite a risolvere le questioni ambientali. Nel libro ci sono anche storie a lieto fine. Il libro è cautamente ottimista. Oggi quasi tutte le società odierne devono affrontare problemi ambientali. E forse possiamo imparare dal passato. Per questo ho concluso il mio libro descrivendo le diverse traiettorie possibili che potrebbe prendere la nostra cultura».

È molto affascinante, se ci pensiamo, il mistero che avvolge tuttora l’isola di Pasqua. Un’isoletta piccola, sperduta nell’oceano Pacifico, con migliaia di km di acqua prima di altra terraferma. Eppure, quel luogo all’apparenza inospitale ha ospitato sempre forme di vita umane, una vera e propria civiltà, scomparsa, oggi lo sappiamo quasi con certezza, per il suo sfruttamento massivo e omicida dell’ambiente dell’isola, una volta ricoperta di alberi, oggi rada e inospitale.

Dice ancora Diamond: «Quando l’isola venne scoperta dai cristiani questa non era che un’isola deserta e arida. Ma le statue erano sicuramente state fatte con ausilio di alberi. Il mistero è stato risolto solo grazie a scavi archeologici. Quando i polinesiani colonizzarono per la prima volta nell‘800 dopo Cristo i colonizzatori cominciarono ad abbattere gli alberi. Scendendo il numero di alberi non potevano più fare canoe per andare a pesca, la mancanza di proteine disponibili li portò anche a praticare il cannibalismo. Ma come hanno potuto ad essere così sprovveduti? Che cosa ha pensato il polinesiano che ha tagliato l’ultimo albero? Una volta ho fatto questa domanda ai miei studenti. “Forse ha pensato più lavoro meno alberi!”, ha risposto uno studente. Un altro studente ha detto: “Forse ha pensato: le future tecnologie e il progresso permetteranno di sostituire questa risorsa! Ed è comunque prematuro gridare all’allarme, non sappiamo ancora se non ci sono altri alberi in zone remote dell’isola che non ancora scoperto!”».

 

È il nascondersi dietro un dito, e le scusanti sono sempre le stesse, allora come oggi.

 

Perché si collassa?: «Insomma: perché gruppi di individui prendono decisioni palesemente insensate? Per lo stesso motivo per cui a volte un individuo prende decisioni insensate. Perché un individuo a volte non riesce a prevedere le conseguenze delle azioni ad esempio. Oppure perché non conosce un precedente che lo possa aiutare a capire. In altri casi un individuo prende decisioni disastrose perché non riconosce il problema. Ad esempio il riscaldamento globale non sta arrivando in maniera lineare, ma fluttuante. E’ stato difficile capire che nelle oscillazioni ci fosse in realtà una tendenza all’aumento della temperatura».

La chiave di volta siamo noi: il nostro comportamento, la nostra consapevolezza potrebbero essere fondamentali a far evitare il collasso del nostro pianeta, non solo della nostra società occidentale. Non corriamo di sicuro i pericoli che correva la civiltà dell’Isola di Pasqua, perché abbiamo l’informazione, il passato che ci viene in aiuto. È questo il nostro vantaggio, che dovrebbe portare tutti noi, consapevoli, ad un cauto ottimismo come Diamond. E abbiamo questo libro: leggere, leggere, leggere…

«Il mio ultimo motivo di speranza è frutto di un’altra conseguenza della globalizzazione. In passato non esistevano né gli archeologi né la televisione. Nel XV secolo, gli abitanti dell’isola di Pasqua che stavano devastando il loro sovrappopolato territorio non avevano alcun modo di sapere che, in quello stesso momento, ma a migliaia di chilometri, i vichinghi della Groenlandia e i khmer si trovavano allo stadio terminale del loro declino, o che gli Anasazi erano andati in rovina qualche secolo prima, i maya del periodo classico ancora prima e i micenei erano spariti da due millenni. Oggi, però, possiamo accendere la televisione o la radio, comprare un giornale e vedere, ascoltare o leggere cosa è accaduto in Somalia o in Afghanistan nelle ultime ore. I documentari televisivi e i libri ci spiegano in dettaglio cosa è successo ai maya, ai greci e a tanti altri. Abbiamo dunque l’opportunità di imparare dagli errori commessi da popoli distanti da noi nel tempo e nello spazio. Nessun’altra società del passato ha mai avuto questo privilegio. Ho scritto questo libro nella speranza che un numero sufficiente di noi scelga di approfittarne».Luigi Oss Papot

PS: mi sono dilungato forse troppo, ma la mia lunga assenza compensa la lunghezza del post… Ora riprendo in mano libri, ma che mi accompagneranno a quattro esami in due settimane. Ma prima preparo i bagagli: Praga aspetta me e la mia dolce metà per quattro giorni! Bon voyage à tout le monde! À bientôt!

 Luigi

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VITA AVVENTUROSA DI CHARLIE SUMMERS, di Paul Torday

pubblicato da: admin - 26 Maggio, 2011 @ 9:18 am

vita avventurosa[1]

Elliot Edizioni

 Da Riccardo ci giunge una delle sue ultime letture che  sembra rimandarci ad avventure di viaggi pericolosi, ma in realtà ci troviamo nella  odierna giungla finanziaria. E nella  nostra epoca  occorre  ancora affrontare  i pirati, le “belve” aggressive…

Nel blog mi era stato consigliato di leggerlo. L’ho fatto. Multa paucis, molti concetti espressi in poche paginette, oppure molti segreti conosciuti da pochi, fate voi …Ecco il risultato.

  • Della leggerezza con cui, in guerra, si registrano gli “effetti collaterali” a danno della popolazione civile.

  • Di come un uomo molto incosciente e ingenuo, un po’ opportunista e profittatore e soprattutto molto sfortunato possa riscattare la sua vita con un gesto finale di grande spessore morale.

  • Del modo in cui la macchina del fango possa travolgere un uomo onesto che, resosi conto di essere stato strumentalizzato, cerca di riportarsi sulla strada dell’onestà e di far emergere la verità.

  • Del come e del perché nella vita possedere molto denaro non sia assolutamente l’ obiettivo strategico (strategico = indispensabile e insostituibile).

A vantaggio di chi non “mastica” questa materia, aggiungo un dettaglio “tecnico” circa l’ “ambiente finanziario” entro cui si svolge il tutto.

Stiamo per vivere la recente crisi finanziaria USA & C. Avete una casa che vale 100. Loro vi sollecitano a chiedere un mutuo ipotecario per 100, “tanto il valore delle case è in continua crescita”. Accettate. Loro vendono l’ipoteca a terzi. Voi non lo sapete, era previsto in una clausoletta piccola piccola nel contratto. Quindi, se poi non ripianate il Vostro debito ipotecario, saranno alcuni terzi, a voi sconosciuti, ad esperire l’esecuzione forzata nei vostri confronti. Un’altra clausoletta anch’essa piccola piccole prevede che i 100 non vi siamo versati ma che voi li investiate nel loro fondo di investimento mobiliare (a forte rischio e) a (promessi) alti tassi di reddito a vostro favore, fondo di cui loro sono i gestori. Questo rendimento a vostro credito “dovrebbe” essere ben superiore alle rate del mutuo a vostro debito. Dovrebbe, appunto … Loro comprano e poi rivendono intere partite di mutui ipotecari bancari tipo il vostro, cioè di valore nominale ben superiore alle reali garanzie ed alla reale capacità di rimborso da parte dei debitori. Tutti gli intermediari ci guadagnano. L’ultimo, dopo aver guadagnato a sua volta (s’intende!) “fallisce” e trascina con sé tutti coloro sui quali aveva “spalmato” questi crediti (cioè sulla popolazione di piccoli risparmiatori – investitori, i quali perdono i loro risparmi). Tutti i debitori ipotecari perdono la casa. Loro investono in operazioni speculative a forte rischio e a forti commissioni (a favore loro, che comunque – quindi – guadagnano sempre, in ogni caso). Gli affari, inizialmente vanno bene. Le banche finanziano loro sino a 30 volte il loro capitale sociale. Parte una valanga inarrestabile: si apre un’operazione per chiudere la precedente e così via sono quando i prezzi della case o degli altri beni oggetto di investimento crollano ed “il re è nudo”. A questo punto molte banche falliscono. Loro cercano finanziamenti anche da fonti “sporche” quali il commercio della droga. Il loro sistema non regge, attaccato e sconfitto sul piano finanziario e su quello penale. Voi non aver mai incassato i vostri 100, perdete la casa e dovete rimborsare 100 al curatore del fallimento. Loro sono fuggiti all’estero con le tasche piene dei vostri soldi. La macchina del fango schiaccia chi denuncia il tutto.

 

Ma insomma, e gli organi di controllo? E i governi? Dov’erano? E qui da noi come mai in una qualche misura ce la siamo cavata? Per nostra fortuna il nostro sistema finanziario non era così tecnicamente sviluppato. Pertanto, non possedendo scarponi, ramponi, corda e chiodi da roccia, nemmeno ci si era provati a scalare questa Nord dell’Eiger, ragion per cui non si è stati colpiti dalla valanga di rocce e ghiaccio che ha travolto gli scalatori USA.

O mùzos delòi, la favola insegna, diceva Esopo … che l’ipocrisia dei controlli; lo strazio della fame e della povertà che le speculazioni al rialzo delle materie prime soprattutto alimentari generano su miliardi di persone; la sproporzione fra chi accumula e consuma troppo e chi niente, alla lunga generano strappi (finanziari) e rivoluzioni (cfr. l’attuale Nord Africa) e ci riconducono a ricercare un sistema di vita più equilibrato, che non sia valutato sulla “media” dei polli arrosto mangiati dalla popolazione mondiale (io 10, l’altro nessuno, media 5), ma sul numero di polli effettivamente mangiati da ognuno.

Buon appetito a tutti!

Riccardo

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LA NOTTE HA OCCHI CURIOSI, di Gin Phillips

pubblicato da: admin - 20 Maggio, 2011 @ 9:43 am

scansione0003ithaca 2006 20Questo libro, edizioni Piemme, ha vinto nel 2009 il Barnes & Noble Discover Award come miglior esordio dell’anno. La sua autrice Gin Phillips  è una giornalista freelance nata in Alabama ed è proprio in questo stato che è ambientata la sua  storia che si aggancia alla tematica dei Luoghi privilegiati.

Come scrive Miki parlando del luogo dell’infanzia, quando tutta la sua famiglia era intorno a lei ,anche nelle pagine de La notte ha occhi curiosi troviamo “il luogo giusto” sia per i giovani protagonisti che crescono nella loro famiglia d’origine sia per i genitori che hanno formnato la loro nuova famiglia.

Sì, perchè il racconto viene narrato a cinque voci, anche se la principale rimane  la giovanissima Tess, quella che, in una notte d’estate, vede una grande figura femminile gettare  un neonato nel loro pozzo.

Questo terribile fatto sconvolge la comunità che però non può permettersi di indulgere nello sconcerto . Siamo nei difficili  anni Trenta, in una cittadina mineraria dell’Alabama , Carbon Hill e la vita è dura per tutti. Per  il capofamiglia Albert che lavora in miniera, per la moglie Leta che spesso salta il pasto per darlo o al marito o ai tre figli, Virgie, Tess e Jack.

Ma  in Tess rimane per molto tempo lo sgomento e il timore di non aver potuto fare qualcosa per salvare quel bambino. Persino negli anni a venire e  fino alla soluzione del mistero, lei e sua sorella Virgie cercheranno tra le povere famiglie  dei dintorni la colpevole. E in questo incunearsi nel tessuto sociale dell’Alabama, in questo sguardo attento delle due ragazzine vediamo delinaersi la realtà dell’epoca e del luogo permeato di povertà e razzismo e che ricorda, come scrive il Los Angeles Times , “Il buio oltre la siepe”.

E’ una lettura scorrevole e facile. I paragrafi sono brevi con i diversi punti di vista a seconda di chi parla, narra e ricorda. Entriamo con empatia in questo mondo lontano dove la miniera rende tutti “neri” con la sua polvere infida, possiamo “vedere” le traballanti verande con Leta e le altre donne che puliscono verdure , lo stanco capofamiglia che si dondola su una vecchia sedia fumando una mezza sigaretta.

Impariamo le fantasie e le superstizioni infantili di un altro angolo di mondo. Tess racconta che non le piaceva indossare le scarpe “anche se mamma diceva che dovevo essere contenta di possederne un paio. Diceva che c’era un sacco di bambini senza scarpe, quelli che lavoravano la terra…diceva  che ti potevano entrare i vermi nelle piante dei piedi e farci un nido. Me li vedevo quei vermetti che si sistemavano nei miei talloni o nei miei alluci, che si scavavano un piccolo salotto nei miei piedi…”

(Ah, che cosa mi ricorda! Mia nonna raccomandava che nelle giornate ventose, quando le foglie secche creavano a terra mulinelli vertiginosi , una  bambina non doveva assolutamente andarci nel mezzo pena …tramutarsi in un maschio! Me ne sono sempre guardata bene!!!Mi è sempre piaciuto essere donna!  E voi ricordate superstizioni , divieti  o consigli irrazionali del vostro Luogo dell’infanzia? )

Seguiamo i primi amori delle ragazze e le piccole avventure dell’irrequieto e vivace Jack. E soprattutto conosciamo a fondo questa coraggiosa famiglia piegata dalla Grande Depressione che con onestà e coraggio  ci manda un messaggio di solidarietà.

Albert, il padre,  è un uomo integro, amatissimo dai figli che si prodiga per aiutare  i compagni di colore che vivono relegati  a Nigger Town.

A proposito, mi è piaciuto leggere delle cucine di Ithaca  che servivavo ad ospitare brevemente gli afroamericani in fuga. ( Incollo quindi –  per Stefania,che non ha tempo - una foto della sua cucinetta americana).

Ma per tornare all’incipit : un Luogo privilegiato per molti di noi è sempre quella dimensione in cui ci eravamo tutti, quando crescevamo e ci sentivamo protetti e tranquilli.

Tess racconta di quando il suo buon papà dà a lei e  ai fratelli un succoso pomodoro fuori pasto.

A metà pomeriggio?” chiese Virgie.

Scegliete quello che volete” incoraggia Albert sorridendo ai suoi figli. “Cogliete quello più grosso e dolce che vedete”

Sono verdure felici, vero papà?” chiese Tess staccando dei gran morsi dal suo pomodoro ” Sono allegri e gioiosi, i pomodori!”

Lettura gradevolissima e sono contenta di poterne parlare.

Sebbene a ritmi più ampi i nostri consigli di lettura  continuano a raggiungere molte  altre persone e  non solo noi del Gruppo Ristretto che scriviamo quasi giornalmente.

Ne ho avuto prova l’altra sera da Cristina durante la sua sempre piacevolissima ed allegra  serata delle Penelopi. C’è anche  la mia cara amica Rosetta, bella e luminosa, che mi prende le mani , mi guarda fisso e mi dice “Sai che ti devo ringraziare?”.

Non so e non ricordo a  che cosa si può riferire. Una ricetta di dolci? Qualcosa che le ho detto?  Dopo un po’ di suspence esclama:

” Per il Blog! Per tutti i libri presentati e per l’entusiasmo convincente che mi ha spinto a leggere. Ora leggo di più ” Rosetta ha apprezzato moltissimo la Veladiano, ricorda ancora “Principessa si diventa” e tanti altri.

Allora andiamo avanti. We’ll go on.

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QUELLA SERA DORATA,ovvero il nostro luogo e il nostro tempo

pubblicato da: admin - 13 Maggio, 2011 @ 7:37 pm

scansione0002Com’è facile e consolatorio leggere Peter Cameron. Corrisponde alle esigenze del Lettore che in un libro vuole svago, impegno, consolazione e un potersi lasciarsi andare  con fiducia perchè viene guidato verso ciò che desidera e che non sa forse di desiderare.

Anche in questo romanzo noi ci addentriamo in un universo che sembra distante –  siamo in Uruguay, – ma che è invece  “dentro di noi”, nei punti nevralgici della “geografia del cuore”.  Attraverso dialoghi che scorrono come un fiume conosciamo a fondo, – e questo è la grandezza di Cameron che con elegantissima semplicità ci conduce nei più remoti recessi del nostro inconscio, -la parte più intima dei personaggi.

E così incontriamo Omar, dottorando in letteratura, distratto, poco preciso, ” che si sente affondare nelle sabbie mobili” ma che viene  pilotato energicamente da una determinata fidanzata .

Una sera, nel Kansas dove abita, Omar rischia veramente di affondare nelle sabbie mobili della palude attorno alla casa isolata prestatagli da un’amica, mentre sta cercando la cagnolina Mitizie, sempre dell’amica. 

Non è casa mia – Mitzie non è il mio cane..”E desiderò di avere qualcosa di suo, di inequivocabilmente e irrevocabilmente suo. Non gli era mai venuto in mente…”

Decide di andare in Uruguay per scrivere la biografia di uno scrittore morto suicida, Jules Gund, , come progettato per poter accedere a una cospicua borsa di studio. Ci va d’impulso  nonostante il rifiuto all’autorizzazione da parte degli eredi.

 Omar arriva faticosamente a Ochos Rios dove in una vecchia e bella villa abitano  Caroline la vedova di Jules e  Arden l’ultima giovane amante con la  figlioletta Porzia. Poco distante, nel vecchio mulino abita Adam il fratello di Jules con il  compagno Pete.

Un microcosmo circoscritto dove le giornate sono scandite da lavoretti nei campi, allevamento di api e qualche incontro con i vicini. Una vita che se per Caroline e Pete sembra stretta è invece accettata pienamente da Adam e da Arden che sanno , consapevolmente, di aver trovato il loro Luogo.

Capisco” dice Omar un giorno parlando con Arden della quale è già innamorato “Capisco perchè lei vuole vivere qui. O almeno penso di capirlo. E’ come se fosse tutto perfetto, qui.”…Tutto sembra perfetto. Ogni cosa sembra al suo posto. Anche gli alberi, il cancello, la villa, tutte le cose della villa, e il silenzio…non so.”

Già Omar, appena arrivato, aveva avuto il presentimento di essere capitato nel suo Luogo. Lo sente mentre parla con l’enigmatica Caroline che copia dipinti famosi nella Torre della casa. Nonostante il dialogo un po’ forzato  fra i due Omar “si sente teso in una sorta di potenziale follia, e con tutta quella luce che pareva sul punto di esplodere. Ma forse era lui. Sentì che stava sudando. Per la prima volta da quando era arrivato in Uruguay, si sentì presente con tutto se stesso.”

La luce dorata che Omar vede sempre intorno a sè è il segno che è arrivato. Il titolo del libro è tratto da alcuni versi di Elizabeth Bishop

Quella sera dorata non volevo proprio andare oltre;

più di ogni cosa volevo restare un po’…”

Mi chiedo se anch’io sono nel posto giusto. Mi guardo intorno e non vedo la perfezione che Omar percepisce nella villa di Arden,nel mio salotto c’è un gran caos, gli oggetti sembrano in attesa di qualcosa e la luce dorata arriva a fasi alterne. Solo la gatta, lare del focolare sembra centrata, sicura di essere dov’è.

 E voi, siete nel vostro Luogo?

 

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UN CUORE COSI' BIANCO, di Javier Marias

pubblicato da: admin - 9 Maggio, 2011 @ 9:35 pm

cop[1]Einaudi

Da Cristina V., milanese che abita per caso a Pisa, ci arriva  una minuziosa  analisi di un romanzo che ci viene presentato quasi in “vivisezione.” Il suo coinvolgimento appassionato le ha fatto scrivere moltissimo spingendola a frugare in ogni anfratto …e della storia e delle intenzioni dello scrittore. Mi permetto, dato lo spirito del Blog (più propenso a dire e non dire per sollecitare la curiosità dei lettori e a distaccarsi dai Forum letterari) di togliere qualche riga.

Ma Cristina V. ci regala, pur non parlando di sè e di ciò che il Libro ha “sollevato” dentro di lei , l’immagine di una Grande Lettrice. Grazie.

 

Tempo fa su un forum letterario ( del Corriere Sera) avevo scritto a caldo alcune righe su Marias: Eccole:

“Ho appena riletto anch’io Marias, ma Un cuore tanto bianco e ,certo, la ripetizione e l’analisi del dettaglio pare decisamente ossessiva. E’ un’analisi meticolosa, fotografica, colta da ogni punto di vista, che avvolge la scrittura e la rende molteplice alla fine. La scrittura di Marias prende i segmenti della realtà e li getta in una sorta di caleidoscopio, dal quale ogni volta escono o possono uscire diversamente assemblati e,allora,il senso degli accadimenti cambierebbe, o cambia…
Strano autore, molto cerebrale, elucubrativo, ipotizzante e ragionante e negante e ribaltante, ma MOLTO interessante e divertente…”

 Ora provo ad argomentare meglio il mio pensiero su questo libro che giudico un libro “di testa” …

 

Uno stile che a prima vista appare arduo, vagamente cervellotico o, meglio, cerebrale. Ma l’attenzione che richiede viene ripagata alla grande.

Il libro è una continua autoanalisi, auto-auscultazione e osservazione, con modalità minuziose a volte financo ossessive. Ma il dettaglio qui è sempre significativo, apre vortici di digressioni e di riflessioni e spesso un particolare ( magari accostato a un altro e a un altro) spalanca significati profondi su cui il protagonista ragiona mostrandoci il suo ragionare proprio nel suo farsi e dipanarsi.

Ciò mi ha ricordato in parte il modo di procedere – più logico ma ugualmente erratico- di Italo Calvino in alcuni suoi racconti, ad esempio La poubelle agréé, dove da un particolare di nessun conto si arriva a una serie di considerazioni socio-filosofiche di grande rilievo e profondità.

Il romanzo ha una costruzione narrativa particolare, che procede per accumulo e ripetizioni, in un modo quasi circolare-ascensionale.

Il libro è strutturato come una specie di sinfonia, con dei leit-motiv ricorrenti (i piedi puliti ben lavati, per poter essere baciati/ il cuscino dei coniugi / il viso da baciare in ogni sua parte /citazioni dal Macbeth di Shakespeare -che peraltro dà il titolo al libro /il reggiseno che tira/ l’uomo all’angolo che scruta/ e molti altri) che al lettore richiamano immediatamente “quella” pagina, e “quel” ragionamento, e “quella” vicenda, per cui basta accennarvi sempre più succintamente e brevemente per richiamarla, come un’arietta musicale che fa capolino, lieve ma incisiva.

 

Questo modo di narrare mi pare anche una specie di gioco (gioco, ma serio) che lo scrittore fa con se stesso, e con noi. Molte sono le parentesi e gli incisi, per ricordare, per sottolineare, per sospendere, per rilanciare e riagganciare: i ragionamenti – così come la vicenda- via via si intessono a formare un intreccio che diventa patrimonio per sempre di noi lettori.

Molte anche le frasi dubitative-oppositive (era questo o quello, passava il tempo oppure no, voleva quella cosa o magari un’altra), come in una sorta di grande puzzle in cui Marias scompone continuamente i pezzi della realtà, per poi rilanciarli in un caleidoscopio magico che li riassortisce e ricompone diversamente, per vedere quali altre combinazioni ipotetiche ne potrebbero nascere. La realtà, ci dice Marias, è molteplice (come in Rashomon) e contraddittoria e casuale, si avvolge e svolge in modo disordinato, e trovare il bandolo – per lui, come per noi tutti – è sempre arduo e richiede impegno.

 

Sull’impianto di una trama quasi “gialla” – ci sono diverse morti oscure in questo libro – entriamo nella vicenda di questo giovane spagnolo, interprete ad altissimo livello, appena sposato, conosciamo i suoi dubbi e riflessioni in occasione di questa importante svolta della sua vita, mentre in controluce si staglia la figura del padre, sposato prima con una sorella, morta tragicamente (è la scena iniziale -descritta al rallenti – nel primo capitolo), e poi con la minore (la madre del parlante). Ranz (il padre) è un anziano bello e affabulatore, dai molti e non sempre chiari intrighi nel mondo delle perizie d’arte, un uomo frivolo,un po’ invadente ma affascinante, che ha molti segreti.

Mentre il protagonista è un uomo che pare stare sulla soglia e vive fino al momento di sposarsi e anche un po’ dopo in una sorta di atteggiamento fatalistico, ma forse è più che altro un uomo che ha paura (paura di sapere, di trovarsi coinvolto)… , ma il libro è – di fatto – anche un percorso di crescita, di uscita dalla prolungata adolescenza e non responsabilizzazione maschile anche grazie alla bella, solare e positiva figura della moglie Luisa ( l’unica vera scelta che il protagonista fa è , infatti, quella di sposarsi).

La trama avanza lenta e tortuosa, fermandosi in molte anse per lunghissime (e ricorrenti) digressioni narrative e riflessioni e considerazioni, in una sorta di andamento carsico, un ragionamento ne chiama un altro e per contrasto o somiglianza un altro e un altro ancora, mentre la realtà viene registrata con occhio curioso e indagatore, nelle sue mille sfaccettature anche visive, come una sequenza di brevi flash fotografici. ( per certi versi il protagonista mi ricorda quello di Blow Up di Antonioni).

…Molto (e meravigliosamente) si dice circa il senso dell’amicizia e il suo (eventuale) limite, grandi pagine si soffermano sul senso del tempo (rivelando una sorta di fatalismo scettico e sconsolato), vi sono una serie di fantastiche e profonde considerazioni sul matrimonio (un’istituzione narrativa, il cuscino è “il confessionale”), viene indagato il valore della verità (e quindi l’opportunità di sapere e svelare i segreti, e le loro conseguenze).

Pagine intense e sottili riguardano il significato simbolico che in una coppia ha il reciproco spalleggiarsi ( ossia darsi/tenere fisicamente le spalle/proteggere/rassicurare l’altro), con notazioni profonde e insieme divertenti.

Infine moltissime sono le considerazioni sulle donne, il loro carattere, il loro sentire, le loro risate, i loro gesti, l’universo del femminile .

Le donne vengono sempre osservate da Marias con affetto, sorpresa, amore e quasi invidia ( il loro lisciarsi la gonna, il loro modo di camminare, il loro cantare inconsapevole mentre magari un bambino maschio malato a casa le ascolta e si incanta, quel bambino che, cresciuto, sarà per sempre escluso da quel mondo).

Per Marias, mentre le donne cantano (inconsapevolmente cantano (la vita), i maschi sono aridi, vigliacchi, meschini e soprattutto silenziosi – solo le donne li salveranno o potrebbero farlo, sembra suggerire l’autore.

“quel canto comunque intonato e che non tace né si stempera dopo che è terminato, quando è seguito dal silenzio della vita adulta, o forse della vita maschile” (così finisce il libro).

L’episodio di Berta (che colpisce fortemente chi legge) è una sorta di racconto nel racconto. Un racconto dolente eppure, ciò nonostante, pieno di vita e di profondità psicologica, di amore per questa creatura femminile piagata ma non piegata, per la sua costanza, e impazienza, e fragilità senza misura. Berta è l’amica zoppa di New York dedita a incontri al buio – alla fine sempre deludenti e frustranti – con uomini trovati sugli annunci dei giornali, che al protagonista chiederà complicità e sostegno oltre l’immaginabile.

L’episodio, narrato – come tutto in questo libro – con finezza, abilità e anche tenerezza, di fatto racconta anche di una addiction (autolesionistica come tutte le addictions), in una maniera delicatamente empatica. .

 

Ma il bello ( uno dei molti lati belli), di questo libro è che lo scrittore non emette mai giudizi morali o moralistici verso i propri personaggi (forse nemmeno verso quelli più squallidi e ambigui, Custardoy figlio o il suo segretissimo padre). Marias li comprende, li tiene dentro e, comprendendoli, ce li descrive e fa capire.

Un cuore così bianco è un libro che consente molte e diverse letture, e guadagna molto a una seconda lettura.

Infatti ha diversi piani e livelli di “degustazione”…

Non è vero alla fine che Marias non emette giudizi etici: li tiene dentro la storia, li fa sbocciare, ci rende sapienti (più sapienti), cambia la nostra prospettiva, il nostro punto di vista, fa entrare aria fresca, allarga l’orizzonte delle nostre teste ( e dei nostri cuori).

Che poi è quello che fa solo un grande libro.

A me “Un cuore così bianco” è realmente piaciuto molto, moltissimo.

 

Cristina Viani

 

 

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IL CIMITERO DI PRAGA, di Umberto Eco

pubblicato da: admin - 3 Maggio, 2011 @ 10:23 pm

IMG_1487IMG_1486Come mi piace questo post di Riccardo! Appassionato, sincero, spontaneo. Di Eco lessi a suo tempo “Il nome della rosa” e lì mi sono fermata.

Questo libro (sebbene ricordi lo struggente cimitero ebraico che dà il titolo a questo romanzo ) non entrerà a far parte della mia biblioteca. Mentre  vi è entrato l’ultimo delizioso lavoro di Alberto Cavanna,  – un azzurro Coffee table book ” -“A piccoli colpi di remo“.

Ieri sera a casa della nostra ospitalissima Cristina,  l’autore di tanti libri sul mare e sulle navi ci ha parlato affabilmente della sua vita di scrittore e della genesi dei suoi libri. E dobbiamo proprio ringraziare Riccardo che da navigante tra flutti e librerie  ha scoperto per noi un amabile e interessante autore “di bosco e di riviera”.

Lascerò spazio ai partecipanti alla serata per ulteriori ragguagli , ma inserisco due foto  dell’incontro accademico scattateci da …Riccardo.

 

Ed ecco “Il cimitero di Praga

Di “cosa parla”? Su internet trovate tanti riassunti, recensioni, critiche. Accomodatevi. All’inizio mi aveva affascinato, fino a quando cioè si parlava dei retroscena politici dei servizi segreti che stavano dietro l’impresa di Garibaldi. Ma poi … basta, per carità, vorrà dire che questa volta il blog di Mirna ospiterà un post “negativo”, di disapprovazione. Se Eco voleva farci sapere che ha una grande fantasia, una grande capacità di narrazione, una grande cultura (cultura = “insieme di conoscenze”), che conosce la storia, che sa a memoria molte ricette di cucina, che si orienta benissimo fra certe viuzze di Parigi e molto altro, c’è riuscito. Del resto lo sapevano già, nè ci sarebbe stato bisogno di questo minestrone (e ci risiamo con le ricette di cucina!) intricatissimo, sconcertante e avvelenante. Infatti, soprattutto semplicemente orrende le teorizzazioni dell’antisemitismo, cui a suo tempo attinse lo stesso Adolf Hitler. Ma che bisogno c’era di rievocarle? Rievocarle in un tempo, il nostro, in cui l’Iran sta cercando di costruire la bomba atomica per distruggere lo Stato di Israele (ma Eco voleva vincere il Premio Strega di Teheran?); in cui quest’ultimo Stato sta usando violenza al popolo palestinese; in cui altri popoli migrano spinti dalla fame e dalle guerre cui cercano di sottrarsi, sperando di essere accolti e non respinti? E poi, tutto quel machiavellismo, quella “politica” autoreferenziale che sempre giustifica stessa in nome della … “politica stessa” (ma l’avreste mai detto? Un po’ come quando membri di un Parlamento votano la fiducia al Governo, cioè a loro stessi in quanto essi sono anche membri di quel Governo!); in cui ad altri popoli (ad esempio il nostro) vengono quotidianamente servite in tavola “interpretazioni ufficiali”, barzellette e giochi di prestigio al posto di verità? Che bisogno c’era di contribuire a confonderle le idee, anziché di chiarirle? E non mi si dica, con un sorriso di indulgente commiserazione sul viso, che io “non ho capito”, che “dietro c’è ben altro”, che in realtà si voleva stimolare una reazione “contro” e non la condivisione, etc.. Il mondo non è fatto di super intellettuali che possono capire ciò che “ovviamente” sfugge ai comuni mortali. Il mondo è’ fatto soprattutto di “gente comune” (evviva la Gente Comune!”), la quale o legge molto, ed allora di fronte a questo libro si indigna, o legge veramente poco, ed allora di fronte questo libro si domanda “ma possibile che non vi sia del vero, che abbia ragion “lui”?” (“Lui” chi? Non ve lo dico. Fate un po’ voi …). Ma se la maggioranza della popolazione legge veramente “poco”, allora forse c’è la speranza che questo libro proprio non rientri in quel “poco”. Insomma, indignazione o scandalo. E le vendite del libro come stanno andando? Sinceramente mi auguro male. Se poi decidete ugualmente di leggerlo, paradossalmente spronati da questo giudizio, procuratevi un notes e una matita per annotare nomi, trame, etc. altrimenti vi perderete per strada” tanto è difficile riannodarne le fila … oppure, prima, leggete la trama e i commenti su internet … vi faciliteranno la comprensione … un po’ come “tradurre dal greco” con a fianco la traduzione interlineare. E comunque l’assassino non è il maggiordomo.

Riccardo

 

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LA STANZA DELLA MUSICA di Namita Devidayal

pubblicato da: admin - 28 Aprile, 2011 @ 8:35 am

Raffaella, appena tornata da un bellissimo viaggio a Roma, ci offre una storia che parla dell’India e della musica . Un romanzo che già dal titolo evoca atmosfere incantate.    

                                                                In queste ultime settimane sono stata letteralmente trasportata nel magico ed affascinante mondo della musica indiana grazie ad un libro molto interessante, La stanza della musica, di Namita Devidayalla_stanza_della_musica[1] ( Neri Pozza, 2009).

E’ sì un romanzo autobiografico, di formazione se volgiamo ,dove la protagonista è una bambina a cui vengono impartite lezioni di raga e taan, che cresce , diventa una giornalista negli States ma torna spesso dalla sua guru, la maestra Dhondutai Kulkarni con la quale instaura un rapporto profondo di amicizia. Ma questo brevissimo riassunto è veramente limitativo per definire un’opera così complessa ed evocativa, che descrive un mondo antico ed affascinante , un viaggio che si snoda tra ricordi personali e aneddoti, e una miriade di richiami alla storia della musica vocale indiana attraverso storie vere e leggende.

Dondhutai è una delle più importanti cantanti viventi di musica classica indiana. Appartiene alla scuola Gharana di Jaipur, fondata da Alladiya Khan e, più tardi, rappresentata da Kesarbai Kerkar. Si dice che uno scienziato americano volle una registrazione del canto di Kesarbai da mandare in orbita, insieme ad opere d’arte e formule matematiche, per salvare una testimonianza del genio umano in caso di catastrofe planetaria.
L’incontro con questa maestra plasma Namita :

“Tornai a Kennedy Bridge la settimana successiva. Durante la nostra prima lezione, Dhondutai mi invitò a chiudere gli occhi e ad ascoltare il fedele compagno dei cantanti, il tanpura.
Io ero incuriosita dallo strumento, che somiglia a un sitar, ma produce solo quattro note, ripetute senza sosta. Dhondutai passò le dita sulle corde e un suono grave, ritmico e ipnotico, prese a colmare la stanza, creando un costante mormorio di serenità. Ben presto, tutti i rumori dell’ambiente – il ronzio del ventilatore, il ticchettare smorzato dell’orologio da tavolo, le grida occasionali dei bambini e degli ambulanti per la strada, il russare sommesso di Ayi, il sibilo della pentola a pressione in cucina – trovarono il loro posto in rapporto a quel suono di sottofondo. Da allora in poi, il nostro linguaggio fu quello della musica.”

L’iniziazione alle note per Namita è un’iniziazione alla vita e Dhondutai, personaggio tragico ma incredibilmente energico, una volta cantante famosa ma ormai dimenticata, vede il lei l’allieva perfetta, la propria riflessione nello specchio della vita che sta ormai volgendo al declino. Dondhutai, forse la vera protagonista del romanzo, ha dedicato la propria esistenza alla musica, non si è mai sposata proprio per donare interamente se stessa all’arte dei raga.

Ho preso questo libro attirata dalla copertina e soprattutto perché sono affascinata dall’India e dalla sua cultura. Ci sono alcune parti dove prevalgono le descrizioni didascaliche della musica indiana e dei suoi protagonisti ma non disturbano eccessivamente la narrazione. Nel complesso di tratta di un romanzo godibile e a tratti davvero sorprendente ed evocativo tanto che i raga che cantano Namita e Dondhutai pare di sentirli davvero…So che nel blog ci sono molti estimatori di musica.

Cosa ne pensate dei libri che parlano di questa meravigliosa arte?

 O parlarne è riduttivo ed è proprio necessario immergersi nell’ascolto delle note? Chiudo con qualche frase dell’incipit, che trovo molto bella.

“ Dondhutai cantava ad occhi chiusi, carezzando ogni nota con tenerezza , quasi si stesse avvolgendo lentamente in un grande bozzolo di musica. Avvertita la presenza di una fonte innaturale di luce, aprì gli occhi , ma continuò con il suo canto, seguendo con lo sguardo il percorso luminoso nell’angolo della stanza. Giunta alla nota più alta e più sublime del raga, udì un sospiro di piacere e le apparve la dea, sorridente. Sbigottita, Dhondutai chiuse gli occhi e quando li riaprì la visione era scomparsa. Posò il tanpura e andò alla porta a ritirare la bottiglia del latte. La sua giornata era cominciata bene”.

Raffaella

 

 

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UN GIORNO QUESTO DOLORE TI SARA’ UTILE

pubblicato da: admin - 24 Aprile, 2011 @ 9:50 pm

Mi avvicino a Peter Cameron con un romanzo dal titolo tradotto alla lettera “Someday this pain will be useful“.

Si entra nella storia  in modo sommesso: conosciamo  James, il protagonista narrante di soli diciotto anni che ci presenta la madre appena tornata affranta da un altro matrimonio lampo fallito e   sua sorella Gillian, una giovane donna  piuttosto determinata.

James invece brancola nel buio: vuole innanzitutto capire e capirsi. Dice che non vuole andare alla Brown  University ma che desidera  comprare una  vecchia casa nell’Indiana per vivere un’altra vita.

Cameron è maestro nei dialoghi e leggerli è facile e godibile, ma il racconto non è così semplice come all’inizio può apparire. Lentamente apprendiamo grazie anche a minimi flashback di alcuni mesi del 2003 del profondo disagio di questo diciottenne definito  “un disadattato” da una sua insegnante che l’aveva accompagnato, insieme alla sua classe, in un viaggio premio a Washington. E’ stato questo viaggio l’esperienza topica che ha innescato  nel ragazzo la consapevolezza di un profondo malessere esistenziale. James  rasenta veramente la sociopatia, ma tutto ci viene raccontato con leggerezza e  con un malinconico sense of humor.

C’è in questo giovanissimo uomo l’angoscia di vedere le cose in un modo più inquietante di come appaiono. Per questo ed altro egli  viene mandato in analisi dalla dottoressa Adler che in una delle ultime  sedute gli chiede che cosa ha provato l’11 settembre.

E in un crescendo di eventi , di rivelazioni giungeremo alla fine a capire il  doloroso percorso di formazione che James sta percorrendo.

Egli sembra non amare le persone, ma le osserva con estrema attenzione partecipando intensamente di loro peculiari istanti.  In una notte d’estate, siamo nel luglio del 2003, James si incanta a “vivere” un momento magico  di una coppia di innamorati  “Magari si erano innamorati cenando nel giardino di un ristorante…magari non si erano ancora dati il primo bacio e camminavano un po’ staccati perchè pensavano di avere tutta la vita davanti per camminare vicino, per toccarsi, e volevano gustare quel momento prima di toccarsi il più a lungo possibile…ma qualcosa in loro mi ha intristito. La scena era troppo bella: la notte d’estate, i sandali, i visi rapiti da quella gioia repressa. Mi pareva di essere stato testimone del loro momento più felice, del culmine che senza saperlo si stavano già lasciando alle spalle.”

James vive come un vecchio, ricorda il protagonista di Senilità già in attesa della fine. Durante il suo viaggio a Washington racconta alla psicoanalista  che visitando la National Gallery si era imbattuto in una stanzetta dedicata a Thomas Cole e ai suoi celebri dipinti sul “Viaggio della vita” dell’uomo.  Navi che vanno e vengono, ma è solo nel quadro “Vecchiaia”che James sarebbe voluto entrare  perchè  la nave sta andando verso il buio. “Volevo saltare quella della Virilità. L’uomo adulto era terrorizzato e non riuscivo a capire che senso aveva il suo viaggio: perchè affrontare quelle rapide infide, su un fiume che sarebbe comunque finito nell’oscurità, nella morte? Io volevo essere nella barca insieme al vecchio, con tutti i pericoli alle spalle e l’angelo accanto che mi guidava verso la morte. Volevo morire”

E’ grazie  però soprattutto all’adorabile nonna Nanette che James supererà il momento di stand by – quello in cui non è mai pronto per cominciare  ad affrontare la vita – ; è infatti  quando sta accanto a lei, nella sua tranquilla casa che non si sente più “estraneo”, “disadattato, disturbato. E’ la nonna che in una delle ultime pagine del libro e quindi del racconto spiega a James l’importanza e l’utilità del dolore. “..io penso che le persone che fanno solo belle esperienze non sono molto interessanti…Il difficile è non lasciarsi abbattere dai momenti brutti. Devi considerarli un dono – un dono crudele, ma pur sempre un dono.”

(Credo allora che tutti noi possiamo considerarci interessanti! )

Ah, i nostri diciotto anni così lontani ! Che cosa provavate?

 

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