L’ACCHIAPPASOGNI di M.A.Salinger
pubblicato da: admin - 29 Gennaio, 2010 @ 8:38 pmTutto il mondo parla della morte recentissima  di Jerome David Salinger, l’autore del famosissimo romanzo”Il giovane Holden“, un libro cult, pubblicato nel 1951, letto da milioni di giovani che nell’antieroe dissacratore della società borghese, si identificava e riconosceva. Si  continua a parlare e a disquisire sulla sua rinuncia a pubblicare altri scritti, tranne qualche raccolta di racconti, dopo quel suo primo immediato successo.
Stamattina su Radio Tre  si parlava ovviamente di Salinger, e a proposito del suo precoce ritiro dalla scena della letteratura, qualcuno diceva che forse l’autore, spaventato da una così grande popolarità , non si sentisse più all’altezza di  scrivere ancora; altri che probabilmente non aveva nient’altro da dire, cioè che tutto il suo pensiero, la sua Weltanschauung fosse compendiata nel suo romanzo d’esordio. Ma Salinger scriveva per sè, ogni mattina, e in una rarissima intervista spiegò:
“Non pubblicare mi dà una meravigliosa tranquillità …Mi piace scrivere. Amo scrivere. Ma scrivo solo per me stesso e per mio piacere”
Certamente il personaggio è fuori dall’ordinario. Sappiamo che è nato a New York nel 1911, da padre ebreo e da madre che si converte all’Ebraismo. Contento di sottrarsi alla madre iperprotettiva, si iscrive all’Accademia Militare di Wayne in Pennsylvania, poi alla New York University che però abbandona presto per lavorare su una nave da crociera. Nel 1939 segue un corso serale di scrittura della Columbia University e scrive racconti che colpiscono favorevolmente il suo insegnante. Nel 1942 viene arruolato e partecipa alle più dure battaglie della guerra, come lo sbarco in Normandia e la battaglia delle Ardenne. Sua figlia Margaret, autrice del libro di cui parlo oggi, racconta che suo padre fu sempre orgoglioso del suo curriculum militare, tanto che aveva mantenuto per anni il taglio di capelli della leva e conservato la divisa.
Viene assegnato al servizio di controspionaggio, grazie alla conoscenza delle lingue ed è uno dei primi ad entrare in un campo di concentramento liberato dagli alleati. Questa è un’esperienza terrificante che lo segna duramente sotto il profilo emotivo; dopo la sconfitta della Germania viene ricoverato in ospedale per curare una sindrome da reazione allo stress da combattimento. A Margaret confiderà poi: ” E’ impossibile non sentire più l’odore dei corpi bruciati, non importa quanto a lungo tu viva”.
Per conoscere Salinger bisogna leggere “Il giovane Holden” perchè tra le sue righe si possono cogliere tanti riferimenti autobiografici. Innanzitutto il titolo originale ci darebbe un indizio:
“The catcher in the rye”, parole tratte (anche se un po’ distorte)  da una poesia di R.Burns, catcher , significa “acchiappatore”, ed è anche il ruolo di un giocatore di baseball, rye è la segale che cresce nei campi accanto ai precipizi. L’immagine dunque che ci viene suggerita è quella di un bambino che gioca  in un campo vicino al baratro dove però sono rari gli “acchiappatori” che possono  salvarlo da una pericolosa caduta.
Non è un caso che sua figlia Margaret abbia intitolato il libro in cui parla di suo padre “Dream catcher“, L’acchiappasogni.
Prima di accennare al racconto della figlia, ricordiamo la storia del giovane Holden Caulfield, che cacciato dal collegio poco prima del Natale 1949, ricerca disperatamente un aiuto per essere salvato prima di “precipitare”. E’ un romanzo di formazione perchè si racconta una dolorosa crescita. Vengono descritti due giorni durante i quali Holden si pone tanti quesiti su ciò che lo circonda, sugli altri, sul passaggio dall’infanzia all’adolescenza. E’ incerto, ha paura, unico elemento di conforto il guantone da baseball di suo fratello morto, sui cui, con l’inchiostro verde, ci sono scritte poesie. Si chiede dove finiranno le anatre quando il laghetto di Manhattan sarà ghiacciato, teme che un bambino trascurato non potrà mai farcela da solo. Questo adolescente , simbolo della difficoltà di quest’età nel mondo occidentale, fa una critica feroce della società americana dei primi anni ’50, dei pregiudizi, del perbenismo, del mondo adulto in genere. Come Peter Pan lui non vorrebbe mai crescere, anche se ha già 17 anni, lui si sente ancora il bambino che sta per cadere in quel mondo che lo spaventa. Gli adulti che appaiono nel racconto sono negativi, soltanto la sorellina Phoebe, che riuscirà a contattare, di nascosto dai genitori, lo rassicura con la sua saggezza innocente. Non vorrebbe che sua sorella crescesse e iniziasse a provare quel disadattamento che lui sente: nè uomo, nè bambino. Le dirà infatti “io vorrei salvare i bambini prima che cadano nel burrone”.
E’ chiaro che Holden è la proiezione dello stesso autore, il quale, se nel racconto mitizza l’età dell’infanzia, nella realtà non sopporta i bambini.
Sua figlia Margaret parla di lui come di una persona patologicamente concentrata su se stessa e ci racconta aspetti sconosciuti della sua vita, ma lo fa con amore e con dolore cercando di colmare quel baratro in cui lei è caduta senza essere salvata dal suo Acchiappatore di bambini, perchè suo padre acchiappatore, lo era soltanto di sogni.
L’isolamento in cui Salinger costringe la sua seconda moglie Claire e i suoi figli a vivere, a Cornish, nel New Hampsire, hanno segnato psicologicamente sia la moglie che la figlia. Dai ricordi di Margaret apprendiamo che Salinger teneva virtualmente prigoioniera la moglie, non consentendole di avere contatti con la famiglia, nè tantomeno con gli amici. L’atmosfera in cui la figlia ha vissuto la sua infanzia e adolescenza sono quindi contrassegnati dall’isolamento e da una grande tensione emotiva. Ha dovuto ricorrere, per bulimia, attacchi di panico, stanchezza cronica, a cure psicoanalitiche. Ricorda che sua madre, quando lei aveva 13 mesi, voleva ucciderla e poi suicidarsi per sottrarsi a quella sorta di “incubo e sogno” in cui erano costrette a vivere.
Nel libro comunque ci sono tante fotografie che ritraggono un Salinger sorridente e amorevole con i figli, che raccontano di momenti di intimità . Margaret ammette che sentiva l’amore di suo padre, scrive infatti “Il mondo si illuminava quando papà ritornava a casa”, ma evidentemente non era quell’amore tenero e comprensivo che si aspettava.
Quando, anni dopo, rivelerà a suo padre di essere incinta lui ribatte che spera abortisca perchè non era giusto far nascere un figlio in questo mondo pidocchioso. (lousy).
Noi leggiamo che Salinger seguiva i dettami della Chiesa scientista, che si interessava alla medicina alternativa e a tante altre teorie e convinzioni spiritual/medico/nutrizionali.
Chi era dunqe Salinger? Un Acchiappasogni? Un giovane Holden mai cresciuto?
I giovani d’oggi si riconoscono in questa difficoltà di crescere? So per certo che “Il giovane Holden” è presente in molte biblioteche scolastiche, ma non credo che quella rabbia appassionata e disperata di cui lui è il rappresentante più famoso sia presente nell’attuale generazione di adolescenti, più portati, mi sembra, alla rinuncia e all’adattamento.
Ora però  aspettiamo con ansia di leggere i suoi manoscritti, accuratamente archiviati dallo stesso Salinger che ha lasciato detto:
” Un contrassegno rosso significa, se muoio prima di averlo finito pubblicatelo così com’è, uno blu significa pubblicatelo, ma prima sottoponetelo a revisione, e così via.
BIBLIOGRAFIA:
“The Young folks”, racconto pubblicato nel 1949 sulla rivista Story Magazine
“For Emè with love and squalor”, racconto in prima persona di un soldato traumatizzato
“The Varioni Brothers” 1943
“Uncle Wiggly in Connecticut” da cui venne tratto un mediocre film intitolato My foolish heart
“Nove racconti” del 1953
“Franny e Zooly”, 1961
“Alzate l’architrave, carpentieri”
“Seymour. Introduzione nel 1963 (Saga della famiglia Glass)
“Hapworth 16, 1924”, breve romanzo epistolare scritto da un bambino di 7 anni.
L'ARTE DI MANGIAR BENE secondo ARTUSI
pubblicato da: admin - 28 Gennaio, 2010 @ 7:39 pmStamattina mi sveglio presto, mi faccio un buon caffè e, imitando una carissima amica che segue questo rito da sempre, me ne torno a letto per berlo con voluttà . Immediatamente Mimilla, la gattina principessa, mi viene accanto a fare le fusa e a richiedere le sue coccole. Penso che sia veramente bellissimo non dover correre al lavoro con il freddo e il gelo, ma potersi inventare la giornata. Voglio fare ciò che mi dà piacere, un’ora di ginnastica, un caffè con un’amica, nel pomeriggio forse un film, lettura, scrittura…ma soprattutto ho in mente di farmi gli gnocchi al pesto per pranzo. Ho due vasetti di squisito pesto ligure, dono dei miei consuoceri, ed oggi, visto che ho delle belle patate, mi voglio cimentare in quest’opera creativa. Cucinare è senz’altro un’arte; io non sono molto brava, il vero chef della famiglia era mio marito Piero, però riesco a preparare torte buone per le riunioni serali e qualche sugo speciale per la pasta.
Chiedo a un’amica che ritengo più esperta quali ingredienti mettere e mi vengono suggeriti ovviamente patate, farina e un uovo. Sembra facile, concludo.
In cucina, canticchiando, comincio a schiacciare le patate lessate calde e aggiungo l’uovo. Schiaccio e schiaccio, mi sembra un laghetto paludoso. Ah, la farina. La metto, ma non succede niente. Irritata, ne aggiungo ancora, e ancora…intanto il tavolo, il pavimento, la gatta nera che circola curiosa lì intorno… tutti coperti da uno strato bianco. Alla fine mi stufo; tolgo dalla terrina questa pappa e comincio a fare i serpentelli, ma mi rimangono quasi tutti in mano, qualche pezzo si disgrega; non canticchio più , ma continuo ad aggiungere  altra farina. La gatta, se ne va miagolando,  scocciata dal velo bianco che vede volare.
Ah, finalmente la consistenza giusta per fare gli gnocchetti… Non capisco perchè non sono cilindrici, ma simili a sassi deformi. L’acqua bolle… io li butto dentro. Mi pare di ricordare che quando vengono a galla sono pronti. Li scolo e li metto nel mio piatto già pronto con il profumato pesto. Sono grossi, qualcuno è attaccato all’altro come gemelli siamesi, e sono duri, duri come la pietra. Dalla rabbia li mangio ugualmente, e poi vado a cercarmi il libro dell’Artusi.
La ricetta suggerita da questo mago della cucina non prevedeva l’uovo!
Leggendo la sua ricetta mi rilasso perchè il suo linguaggio ottocentesco e fiorito è una delizia. Continuo a sfogliare e ritrovo in queste pagine l’atmosfera delle famiglie borghesi di fine ottocento e l’importanza che la cucina, fatta a regola d’arte, aveva. Artusi è spiritosissimo, per cui questo libro non è un semplice ricettario, ma è un divertente e utile documento sulla vita dei nostri antenati.
Pellegrino Artusi nasce a Forlimpopoli nel 1820, si laurea in lettere, si stabilisce a Firenze, diventa critico letterario, scrittore e gastronomo.
 Infine si dedica al commercio, curando in modo particolare i suoi due maggiori interessi: la letteratura e la cucina.
Il suo libro, pubblicato nel 1881, ha già avuto 111 edizioni. Nella sua opera l’Artusi raccoglie tutte le ricette regionali culinarie dando così, 20 anni dopo l’unificazione d’Italia, un contributo importante per la formazione di una cucina nazionale italiana. E’ un testo che ha cementato l’unità d’Italia non solo a tavola, ma anche nell’uso della lingua. Qualcuno dice che vi ha contribuito più che Manzoni con I Promessi Sposi.
Il suo è un linguaggio corretto, scorrevole dove si ritrovano parole desuete e qualche toscanismo, e dove la spiegazione del piatto viene “infarcita” di aneddoti, citazioni poetiche, riflessioni personali.
Ecco gli ingredienti che suggerisce per gli gnocchi:
“……………Patate grosse e gialle, grammi 400.Farina di grano, grammi 150:
Vi noto la proporzione della farina per intriderli, onde non avesse da accadervi come ad una signora che, me presente, appena affondato il mestolo per muoverli nella pentola, non trovò più nulla; gli gnocchi erano spariti. -O dov’erano andati?-……..”
 Si erano liquefatti. I miei invece…
Dal suo ricettario a tutt’oggi sono state cancellato soltanto alcune ricette, tra le quali una per cucinare il …pavone!
“Siate allegri ,dunque,” inizia l’Artusi spiegando la sua ricetta dei Biscotti della salute  “chè con questi biscotti non morirete mai o camperete gli anni di Mathusalem. Infatti, io, che ne mangio spesso, se qualche indiscreto, vedendomi arzillo più che non comporterebbe la mia grave età , mi dimanda quanti hanni ho, rispondo che ho gli anni di Mathusalem, figliolo di Enoch.”…Nella ricetta ci sono anche, oltre farina, zucchero rosso, burro, bicarbonato di soda, uova, latte,  il cremor di tartaro (?) e odore di zucchero vanigliato…
Artusi morì a 91 anni.
Ma insomma in che cosa ho sbagliato nel fare gli gnocchi?
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UMBERTO SABA, da Poesia italiana del Novecento
pubblicato da: admin - 27 Gennaio, 2010 @ 4:51 pmSaba in ebraico significa pane; il nostro poeta, che in realtà si chiamava Poli, lo assunse per amore della madre ebrea, abbandonata dal marito.
Oggi, 27 gennaio, Â ho ripensato a lui e alla sua poesia :
                                                                                                                                                                                             La capra
                                                                                                                                                                                   Ho parlato a una capra:
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d’erba, bagnata
dalla pioggia, belava.
Quell’uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perchè il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.
In una capra dal viso semita
sentivo querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.
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Saba usa parole semplici, (troviamo la sua poetica nei versi “Amai trite parole…m’incantò la rima fiore amore”, ma ciò che scrive  lo sentiamo  fortemente e immediatamente nel cuore,  e in questa poesia riusciamo a percepire sia il dolore del popolo ebraico perseguitato, sia il  dolore dell’umanità intera.
“La capra dal viso semita” è un verso prevalentemente visivo e Sanguineti, che ha curato questa antologia, dice che probabilmente Saba non si riferisce coscientemente agli ebrei, ma si aggancia d’istinto ai pregiudizi iconografici sugli israeliti.
Qualche altro critico pensa addirittura a un probabile conflitto con la cultura ebraica, sorto a causa dell’austerità e della severità della madre. La mancanza del padre, la madre costrittiva dalla quale vuole liberarsi spingono Saba a sottostare a un trattamento psicoanalitico dopo  il quale forse sorge in lui il desiderio di distacco dalla cultura materna.
Mi piacerebbe leggere dai miei ex-alunni, che quest’anno sosterranno l’esame di maturità , cosa hanno imparato circa la poesia di Saba in generale.
Ripassiamo velocemente: il poeta nasce a Trieste nel 1883, frequenta le scuole commerciali senza conseguire il diploma (i poeti non hanno bisogno di diplomi o lauree!), s’imbarca come mozzo sulle navi, si stabilisce a Salerno dove si sposa, poi torna a Trieste e qui apre una libreria antiquaria, Â tuttora gestita da un gentile signore; durante la seconda guerra mondiale, costretto dalle leggi razziali, soggiorna a Parigi e a Roma, nascosto presso una famiglia amica.
Nel 1951 gli viene conferita la laurea honoris causa. Muore nel 1957.
Che cosa ricordate di Saba? Le poesie dedicate a sua moglie Lina?  Ulisse?  O forse quella dedicata a quella bellissima città azzurra che è Trieste?
………………………………….
Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore:
come un amore
con gelosia.
………………..
La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.
Gli alunni della mia ultima terza media, in gita scolastica a Trieste, l’hanno  imparata a memoria.; erano così orgogliosi di recitarla mentre “salivamo l’erta” e vedevamo il “muricciolo” o la “sassosa cima”.
Naturalmente abbiamo anche visto con sgomento il ghetto ebraico e la Risiera di San Sabba.
DIARIO di Etty Hillesum
pubblicato da: admin - 26 Gennaio, 2010 @ 4:31 pmScrivere di sè è il più grande aiuto  che ci si può dare: impariamo a conoscerci più a fondo. Il “conosci te stesso” è sempre valido in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Molti di noi tengono un diario per registrare non solo gli accadimenti quotidiani, ma per sgomitolare quei sentimenti e quelle emozioni che ci accompagnano nella ricerca del senso della nostra esistenza.
Io ho cominciato a scrivere il diario a 14 anni, sull’onda emotiva della lettura del Diario di Anna Frank. E continuo tuttora. Amo tantissimo leggere i diari di altre persone, soprattutto naturalmente quelli dei grandi pensatori, perchè in essi ci si ritrova, da essi si attingono illuminazioni, spunti, aiuti o legittimazioni del nostro procedere.
Pensando a domani, giorno della memoria, mi ritrovo a sfogliare  il diario meraviglioso di Etty Hillesum, che soltanto pochi anni fa, non conoscevo. Comprendo la perdita che avrei avuto dentro di me se non lo avessi letto.
Ne parlo oggi anche perchè vorrei ricordare che al Teatro Cuminetti di Trento, sia il 27 che il 28, ci saranno due rappresentazioni sulla sua vita e il suo pensiero.
Etty nasce in Olanda nel 1914 da una famiglia della borghesia intellettuale ebraica. E’ una ragazza brillante, anticonformista, con la passione per la lettura, la psicologia e la musica. Non ancora trentenne, vive ad Amsterdam, lontano dalla famiglia. Nel 1941 conosce Julius Spier, più anziano di lei, che esercita con successo la psicochirologia appresa da Jung di cui è stato allievo.Â
Etty comincia a scrivere per una necessità vitale: quello di far erompere allo scoperto i suoi sentimenti, che bloccati nel profondo, la fanno stare male.
                           “Avanti, allora! E’ un momento penoso, quasi insormontabile: devo affidare il mio animo represso a uno stupido foglio di carta a righe:”
Questo è l’incipit dei suoi quaderni. E’ il 9 marzo 1941. Deve sbrogliare i suoi sentimenti verso Spier dal quale si senta fortemente attratta, e che diventerà il suo amante,  e analizzare se stessa anche nei confronti della sempre più minacciosa repressione nazista verso gli ebrei.
Soprattutto la sua ricerca è quella “dell’essenziale e del veramente umano” tanto che, lei, ragazza laica e aconfessionale, troverà , infine attraverso un continuo dialogo interiore, Dio.
Lo trova nel profondo di sè.
 E’ il suo atteggiamento positivo verso la vita in modo assoluto, nonostante gli orrori che sta vivendo la sua epoca, che farà crescere la sua inarrestabile tendenza ad amare la vita globalmente, l’essenza umana e Dio. Etty ha bisogno che Dio ci sia per vivere a fondo la meravigliosa esperienza della vita. ” La sorgente profonda che scopre in lei, dopo averla dissepolta da pietre e sabbia è Dio.”
                                                                                                     “Se Dio non mi aiuterà allora sarò io ad aiutare Dio”
La sua esistenza è un grandissimo insegnamento, non solo per questo suo  personale approdo spirituale, ma per l’amore verso tutto e tutti .
                                                                                    “Io vivo, pienamente, e la vita vale la pena viverla ora, oggi, in questo momento”
Questo mio volumetto è letto e sottolineato perchè ogni riflessione, ogni parola sono preziose. Etty è come un sole, che risplende di luce propria, e così facendo diffonde esempi di coraggio e gioia.
Nel 1943 lavora a Westerbork, il campo di smistamento degli ebrei olandesi in attesa della deportazione. Di questo periodo rimangono le sue lettere agli amici, dense, pur tra le descrizioni drammatiche, della sua inestinguibile voglia di vivere.
Scrive, ad un certo punto, che se riesce a vivere con intensità la vita, allora i posteri non dovranno ricominciare tutto daccapo.
Morirà ad Auschwitz il 30 novembre 1943.
A tutti suggerisco di farsi un dono: quello delle parole di Etty.
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MORTE A FIRENZE, un giallo italiano
pubblicato da: admin - 25 Gennaio, 2010 @ 4:04 pmMi piace cambiare genere, non per niente ho libri iniziati da tutte le parti. I thriller sono quei romanzi che mi distraggono totalmente dalle preoccupazioni.  C’è il mistero da risolvere e tutta l’attenzione è rivolta ai particolari che possono svelartelo un po’ alla volta. Fin da ragazzina ho cominciato ad appassionarmi ai libri gialli, in casa ce n’erano parecchi perchè mia madre ne era una lettrice assidua. Erano proprio quelli dalla copertina gialla editi da Mondadori. Gli autori: Rex Stout, Erle Stanley Gardner, Simenon e soprattutto Agatha Christie, quest’ultima da me amata perchè i suoi omicidi avvengono prevalentemente in Inglterra. Miss Marple ed Hercule Poirot sono i miei investigatori prediletti. Ma naturalmente leggo con molto piacere anche gli scrittori contemporanei  come la Cornwell, la James, la Vargas e gli svedesi, insomma tutti quelli che mi capitano a tiro.
Morte a Firenze è l’ultimo romanzo di Marco Vichi. E’ un giallo un po’ anomalo perchè l’indagine per scoprire il responsabile di un efferato delitto, l’uccisione di un tredicenne, è molto lenta interrotta e rallentata dall’avvenimento catastrofico che fu l’alluvione del 1966. Anzi sembra quasi non si possa mai scoprire il colpevole. Ciononostante la lettura è rapida e interessante proprio perchè il protagonista, il commissario Bordelli, ci descrive giorno dopo giorno ciò che avvenne in quei devastanti giorni di pioggia ininterrotta. Pur ricordando quegli avvenimenti, leggendo, ho realizzato appieno il dramma dei fiorentini come il loro convivere, dopo che l’Arno rientrò nell’alveo, con strati e strati di fango.
In quest’atmosfera grigia, plumbea, fangosa si snodano quindi tre tematiche:
– l’alluvione e lo sgomento dei cittadini, la loro fatica a ritornare a una vita normale;
 – la ricerca ardua di far luce sull’omicidio;
– le riflessioni malinconiche del commissario di mezz’età , che si sente solo e preda dei ricordi tragici della seconda guerra mondiale e della Resistenza. Siamo nel 1966 e in città ci sono ancora nostalgici del Fascismo, rancori e ferite aperte.
Per alleggerire la storia ci sono però le descrizioni dei pasti consumati da Bordelli nella solita trattoria (e qui ci si può confrontare con i pranzi del commissario Montalbano), personaggi positivi e ameni, come l’ex- ladro-scassinatore, che aiuterà  con la sua perizia le indagini.
Credo ci saranno tanti amanti dei thriller, so per certo che Raffaella lo è perchè ci siamo spesso scambiate titoli e opinioni.
Come si chiama l’ispettore investigativo della James? Quello che dà il titolo alla storia ambientata in Cornovaglia: “E’ una notte di luna, ispettore D…?”
Chi mi suggerisce altri bei gialli?
FIRMINO, e il sapore dei libri
pubblicato da: admin - 24 Gennaio, 2010 @ 6:15 pmIo sono una divoratrice di libri, ma Firmino mi batte perchè lui li mangia letteralmente, anzi li divora perchè ha tanta fame. E’ un topolino delicato, che vive insieme a 12 fratellini prepotenti e ad una mamma stanca e alcolizzata nel seminterrato di una libreria di Boston. Presto resterà solo a rosicchiare le pagine dei libri e allora si accorgerà che i più belli sono anche i più buoni.Â
 “Avevo scoperto una relazione interessante, una sorta di armonia prestabilita, tra il sapore e la qualità letteraria” dice.
D’ora innanzi  l’umanizzazione di Firmino esplode perchè si accorgerà di saper leggere e di essere felice nel farlo. Non potendo ora  più mangiare  libri come il Diario di Anna Frank, o quelli di Dickens , Faulkner, Flaubert, uscirà all’aperto in cerca di cibo  e scoprirà  così il cinema, dove non solo potrà spiluccare resti di pop corn e caramelle, ma conoscerà  Fred Astaire e Ginger Rogers, che diventeranno suoi idoli.  Il suo nutrimento culturale proseguirà velocemente tanto da fargli desiderare, lui umano spiritualmente, anche se non fisicamente, di avere contatti con gli uomini. Ma tranne uno scrittore che lo adotterà , lo aiuterà , gli farà amare il jazz, ecc. Firmino comprende che il diverso non sarà mai accettato.
 Lui è un esserino speciale, intelligente, ma  gli uomini ne vedono solo la parte esteriore: è un ratto da scacciare e malmenare.
E’ una storia malinconica, da leggere con piccole pause per poter riflettere sulle numerose metafore che ci offre. Firmino, nella sua ingenuità e fiducia verso gli altri, dimostra l’impotenza dei deboli, che poco possono fare contro la prepotenza dei più forti. E’ il topo di biblioteca: metafora dei solitari, dei curiosi e insaziabili, dei pensosi ricercatori del senso della vita.
Il romanzo, regalatomi da una cara amica di Recco, (che vorrei tanto si attivasse tecnologicamente per avere i suoi preziosi commenti sul blog) è stato scritto da un esordiente Sam Savage, nato nel 1940, (quindi settantenne!), il quale ci regala oltre a questa storia fantastica, tante golose citazioni letterarie.
Lo definirei un romanzo di formazione perchè il nostro Firmino crescerà culturalmente e capirà , suo malgrado, la realtà che lo circonda, non ultima la poca importanza riservata alle “arti” intellettuali, quando vedrà demolire dagli speculatori edilizi la vecchia libreria.
Naturalmente io,  amante degli animali, gatti, cani e anche topini colti, ho apprezzato molto la sua storia. A volte penso che certi animaletti ci capiscano e potrebbero persino comunicarci i loro pensieri se conoscessero il nostro linguaggio; la mia gattina nera Mimilla, che capisce tutto, è sulla buona strada, quando parla usa intonazioni diverse a seconda di ciò che vuole esprimere. Sono sicura che presto vorrà imparare a leggere perchè quando apro un libro arriva di corsa a mordicchiare il bordo e a scrutarlo per bene. E’ del mio parere un’altra amica lontana, Giuliana di Aquileia, che trova nei gatti qualità spesso migliori delle nostre uname. A volte penso che lei stia subendo il processo inverso a quello di Firmino: si sta…”gattizzando”!
Per curiosità sono andata cercare le opinioni dei lettori di Firmino su Internet e ho letto pareri altamente discordanti: dagli entusiasti come me, che vi trovano metafore, simboli, messaggi subliminali in ogni riga, a quelli che dicono che sono stufi di sentir parlare di topastri, che è noioso, ecc.
Mi piacerebbe conoscere i vostri commenti.
Il mio blog non è però uma mera recensione di libri letti o riletti, ma anche una riflessione giornaliera sulla vita dopo i 60 anni. Intanto mi sento molto elettrizzata grazie a questa nuova avventura, mi sembra che le sinapsi funzionino meglio; continuare a cercare libri da leggere, argomenti da collegare o da sottoporre agli eventuali commentatori, mi mette un entusiasmo tale che dimentico persino gli acciacchi.  Speriamo di continuare così e di riuscire a portare a termine anche la sfida (di cui mi ero dimenticata)!  Un anno: gulp!
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SALVATORE QUASIMODO – Tutte le poesie
pubblicato da: admin - 23 Gennaio, 2010 @ 6:29 pmL’ELEGANZA DEL RICCIO, libro che tutti dovremmo leggere
pubblicato da: admin - 22 Gennaio, 2010 @ 4:18 pmPerchè tutti noi dovremmo leggere il romanzo di Muriel Barbery? Intendo con noi, i rappresentanti dell’Occidente consumistico, dell’immagine, della fretta. Perchè la storia raccontata è¨ particolare, come particolari ne sono i tre protagonisti principali che vivono in un’elegante palazzina di Parigi: Renéé, la portinaia di mezz’età ,a Paloma, una dodicenne che abita là con la famiglia e monsieur Ozu, un ricco giappponese da poco trasferitosi all’ultimo piano.
Renèè e Paloma all’inizio del racconto non si conoscono, ma  vivono entrambe una vita doppia, quella loro interiore e quella esteriore conforme agli stereotipi che la società (la nostra società ?), ci impone.
Da una portinaia ci si aspetta la sciatteria, la teledipendenza, l’ignoranza, perchè ciò non turba l’establishment, i ruoli sociali. Renèè, allora, si mostra come gli altri la vogliono, perchè non intende dare battaglia per farsi “vedere” o conoscere per quello che veramente è, sa che sarebbe inutile e faticoso. E per starsene più tranquilla si avvolge in un mantello di “aculei”, di quasi scortesia verso gli altri. Per non sentirsi ferita preferisce nascondersi. E il suo nascondiglio, come si accorgerà Paloma nella sua indagine sulle persone vicine, è la cultura, l’amore per l’arte e la bellezza, il lento dorato piacere di leggere e insieme bere una tazza di tè.
Paloma è una dodicenne geniale, speciale, sensibilissima  che vive in una famiglia non peggiore delle altre, ma disattenta, arida, nevrotica. Anche Paloma  mostra ciò che ci si aspetta da lei: la superficialità dell’adolescente, ma essa in realtà è una lucida e severa osservatrice della mediocrità dell’esistenza che la sua famiglia le mostra. Scrive un diario giornaliero a tal proposito (nel film sarà una telecamera a spiare la banalità , la tristezza e la difficoltà del vivere della mamma, del padre, degli amici di famiglia ); sente di trovarsi prigioniera come un pesce nella sua boccia di vetro, anzi per lei è tutta l’umanità che vive in una sorta di innaturale campana di vetro dove tutto appare senza senso e senza via di fuga. E’ per questa assenza di alternative alla sua esigenza esistenziale, che la ragazzina decide che si suiciderà  il giorno del suo tredicesimo compleanno. Se la vità è così a lei non interessa continuare. Intanto però continua ad osservare, annotare, riflettere.
Paloma si accorge di Renèè e  in lei trova qualcosa che la incuriosisce, la intriga. Parlano un po’, si “riconoscono”.
Monsieur Ozu, appena arrivato, sarà infine il  catalizzatore che riuscirà a riequilibrare in una dimensione più serena la vita delle due protagoniste.
E’ emozionante il “riconoscimento” letterario, e quindi di consonanze, fra Ozu e Renéé quando citano insieme la famosa frase dell’incipit di Anna Karenina:
Tutte le famiglie felici si assomigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo.
Pur tra la diffidenza iniziale di Renèè, la conoscenza reciproca si allarga grazie all’atteggiamento di Ozu che guarda le persone con sguardo trasparente,lungimirante,  andando oltre le apparenze e i pregiudizi , ma cercando nell’altro la Qualità , la sua Essenza. E qui si inserisce anche Paloma che, grazie ad entrambi, capirà la ricchezza che c’è nella vita in ogni caso, e che sarebbe assurdo sprecarla. Ci pensa già il destino a farlo per noi.
A questo proposito mi piacerebbe conoscere opinioni sulla fine del romanzo. Serviva proprio che terminasse così? Perchè? Noi non saremmo stati  in grado di accettare un’alternativa inconsueta?
Nel film Il riccio di Mona Achache, che io ho visto con grande piacere, gustando la bravura eccezionale degli attori, mancano però molte riflessioni, le ricche citazioni letterarie, il brivido, così ben descritto dalla Barbery, delle scoperta delle affinità , dell’emozione di riconoscersi in qualcun altro, manca , per esigenze di genere, quella lentezza Zen che Monsieur Ozu assapora  nel suo stare al mondo.
Mi permetto di soffermarmi proprio sulla lentezza del vivere che noi abbiamo perso, tesi a  consumare  il tempo con ingordigia e fretta per arrivare chissà dove, quasi si avesse paura di stare un po’ dentro di noi o di “guardare attentamente” gli altri. Il tempo è una grande ricchezza e occorre spenderlo bene.
Ne sanno qualcosa anche i miei cari amici, i soci della Banca del Tempo di Trento. Ma di questo parleremo un’altra volta.
PIANOFORTE VENDESI
pubblicato da: admin - 21 Gennaio, 2010 @ 8:23 pmParole che si potrebbero leggere in bella mostra nella vetrina del negozio di mio genero Marco a Chiavari.
Invece PIANOFORTE VENDESI è¨ il titolo del nuovo libro di Andrea Vitali, autore di romanzi esilaranti quasi tutti ambientati sulle rive del lago di Como nel periodo del Ventennio fascista. Primo fra tutti “Olive comprese”, che io avevo immaginato come quelle servite col Martini dry…ma che invece di ben altre…olive si trattava. Libro scritto benissimo, veramente divertente, soprattutto per i maschietti.
Anche questa storia è ambientata a Bellano, sul lago di Como, durante la notte dell’Epifania del 1966, ritenuta dal paese la festa dei morti. Tutti gli abitanti festeggiano con grandi mangiate e bevute; fra questi c’è soprattutto il calzolaio, custode del pianoforte, quello che vivrà una notte particolare e di colossale sbronza per poter dialogare, come ogni anno,con tutti i defunti, di famiglia e non.
Già l’atmosfera invernale, di pioggia, di oscurità e bagliori, ci danno una sensazione di obnubilamento, di irrealtà e magia, di contraddizioni “tra lecito ed illecito”, tra il bianco e il nero, ma soprattutto ci fanno percepire una coesa continuità tra passato e presente.
E’ un romanzo breve scritto in una prosa chiara, corretta e godibilissima. L’ho letto stamattina quando, dopo la mia ginnastica posturale, sono andata dalla dottoressa per una visita. (alla nostra età è d’uopo far controllare la pressione e i vari acciacchi, nel mio caso un ginocchio un po’ dolorante). Ho aspettato quasi un’oretta per poi sentirmi dire che la pressione va abbastanza bene, che il ginocchio forse migliorerà e che tutto rientra “nel quadro”… Pazienza, intanto però mi ero letta una storia bella, diversa da quelle scritte finora dal Vitali, una storia che mi ha fatto ricordare e riflettere.
Insomma, si parla di un ladro soprannominato Il pianista per via delle sue mani lunghe e affusolate. Qui dovrei mettere però un inciso perchè¨, secondo molti pianisti, le mani più adatte per suonare una tastiera dovrebbero essere larghe e forti come quelle di un carpentiere.
Il nostro ladro, approfittando della gente che festeggia, s’imbatte in un cartello Pianoforte vendesi e pensa che, con nessuno in giro, potrà arraffare qualcosa. La casa in questione è aperta e lui può salire indisturbato.
E’ emozionante l’incontro- scontro con il pianoforte: davanti a lui nell’oscurità un oggetto poco conosciuto e soprattutto difficile da rubare. Ma la sua lunga mano da pianista e da ladro sa¬ che
Il medio cade su un tasto, ne nasce un DO profondo che occupa il silenzio.”
Improvvisamente dall’altra stanza esce la vecchia proprietaria dello strumento, una gentilissima pianista che lo farà sedere e, dopo una surreale conversazione, lo farà suonare. E’ come se la vecchia signora gli avesse prestato le sue mani perchè lui suonerà un valzer che poi ripeterà , sbalordito egli stesso, al maresciallo e al brigadiere che indagano sul suo conto.
La signora , si scopre, è¨ morta però da parecchio tempo.
Mi sono venute subito in mente le storie di fantasmi raccontate da mia nonna e quelle sentite da chi crede nel paranormale. Ne hanno scritto, fra i tanti, Henry James e persino G. Jung, assai intrigati da queste esperienze tramandate da tante generazioni .
Chi ci crede? Quali racconti ricordate? Potrebbe esserci qualcosa di inspiegabile anche per noi i figli della scienza e della tecnologia?
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PICCOLE DONNE ovvero un romanzo di formazione
pubblicato da: admin - 20 Gennaio, 2010 @ 3:32 pm E’ proprio vero: un libro tira l’altro come le ciliegie. Nel libro della Rasy, letto ieri ,viene nominata anche  la scrittrice statunitense Louise Mary Alcott e subito un’immensa nostalgia del suo romanzo “Piccole Donne” (1868) mi ha assalito.  Stamattina per consolarmi della partenza di mia figlia sono andata a cercarlo in un vecchio armadio e l’ho trovato un po’ spiegazzato con un odore di antichi libri di scuola. Mi sono preparata la mia calda tazza di tè e ho cominciato a sfogliarlo. Ci sono anche le illustrazioni, ( un po’ “decorate” da mia figlia, da me costretta a suo tempo a leggerlo). Ho cominciato a ripercorrere alcune pagine: certo,  sono datate per noi lettori esigenti e un po’ scettici, ma vi ho ritrovato quei fili conduttori che fan sì che esso rimanga sempre uno dei libri più amati da molte generazioni femminili, come il caldo affetto familiare, l’onestà , la generosità di quasi tutti i personaggi e quegli aspetti della vita americana che a noi ragazzine degli anni ’50 piacevano moltissimo. Le frittelline e le salsicce per colazione, i canti di Natale al pianoforte, le ghirlande sulle porte, e gli stessi nomi dei protagonisti, Meg, Jo, Amy, Beth e Laurie.   Tutte noi lettrici volevamo essere Jo, il “maschiaccio”, una ragazza anticonvenzionale, modernissima per l’epoca in cui si svolge la storia. Siamo negli anni della Guerra di Secessione, il padre è al fronte, la madre si prodiga per non far mancare nulla alla famiglia e  per aiutare quelli ancora più poveri ; le quattro sorelle vivono con complicità ma non senza sacrifici i loro piccoli accadimenti quotidiani. E’ un mondo che appare remoto alle giovani di oggi. Molte di loro, come la mia nuova amica Jessica, non l’hanno letto; credo che lo trovino troppo sdolcinato. Un po’ concordo. Ma oltre alle descrizioni di disavventure per guanti sporchi di limonata o di riccioli bruciati, o di amori non contraccambiati,  la famiglia March ci  dà messaggi importanti come il coraggio  nell’affrontare ogni situazione della vita e la necessità di raggiungere  la  consapevolezza di ciò che si è e che si vuole diventare. Un episodio saliente della storia, che sottolinea la modernità della Alcott, è quello in cui Jo si fa tagliare i capelli e li vende per aiutare la famiglia.“Venticinque dollari! Dove li hai presi? Che cosa hai fatto?” Senza rispondere, Jo si tolse la cuffietta scoprendo la testa rasata. “I tuoi capelli! La tua sola bellezza! Povera e cara Jo…non sembri più tu…  I capelli lunghi sono il simbolo della femminilità , condiviso da tutta la società ottocentesca, e Jo osa intaccarlo. Più trasgressiva di così! Non so se quando lo lessi la prima volta, nel 1953, colsi questo importante significato; ogni libro, si sa , ha più livelli di lettura e comprensione. Per questo molti romanzi devono essere letti più volte per essere compresi nella loro totalità .  Ricordo che qualche anno fa feci vedere il film a scuola, quello interpretato da Winona Ryder, a una mia seconda media . ( Io invece avevo visto quello con June Allyson e Liz Taylor nella parte di Amy). Le mie alunne erano in estasi e se lo sono gustato ridacchiando e commentando spesso, soprattutto la storia d’amore di Jo con Laurie; i poveri maschietti , invece, tra uno sbadiglio e l’altro mi chiedevano di uscire ogni 10 minuti  e quando li controllavo perchè non ritornavano in aula , li vedevo lungo il corridoio a parlare con la bidella o a gironzolare annoiati. E’ questo romanzo un libro per sole donne? E perchè? Probabilmente l’identificazione immediata con le ragazze lascia poco spazio all’immaginario maschile, gli uomini sono, a parte Laurie, in secondo piano. Il padre stesso è lontano e poco importante nell’economia del racconto, anzi è importante proprio la sua assenza. Sappiamo che questo è in parte autobiografico: il padre della Alcott era abbastanza inconsistente sia come figura paterna che come lavoratore e la stessa scrittrice si era data da fare per aiutare concretamente la famiglia. E’ comunque un romanzo di formazione, le piccole donne cresceranno e sceglieranno con consapevolezza la loro strada. Meg vorrà una famiglia tradizionale, Amy, più ambiziosa, cercherà la ricchezza e il prestigio sociale, Beth, la più sfortunata vorrebbe solo amore incondizionato e armonia, e Jo, la mia preferita, vuole realizzarsi, vuole fare la scrittrice. Ed è  l’unica, e qui sta ancora  la modernità del romanzo, che raggiunge il suo happy end senza l’aiuto di nessuno, nè dell’innamorato, nè dei soldi, ma soltanto grazie alle sue capacità e alla sua forza. Jo diventerà scrittrice e aprirà una scuola per studenti poveri insieme a un marito, un maturo insegnante tedesco, che non rientra nell’immaginario del  principe azzurro tipico dei romanzi per sole giovinette.  Mi piacerebbe tanto sapere se alcune lettrici si sono identificate in una delle altre sorelle che non sia Jo.                                                                                                                                                           *                   *                    *                    *                      *  In tarda mattinata mi sono presa una pausa: oggi 2o gennaio è una giornata splendida, algida e soleggiata. Ho incontrato un’ amica, Enza, in un bar di piazza Duomo. E’ così piacevole incontrare una cara persona e davanti a un caffè conversare di cose piacevoli. Le ho parlato del mio blog e prendendo lo spunto del libro ritrovato abbiamo iniziato un dibattito sull’importanza degli oggetti. Quali conservare? Tutti ? Mi pare che Borges in una celebre poesia parli degli oggetti come di cose vive…Enza ed io ci troviamo invece d’accordo nel conservare il meno possibile, tenere solo gli oggetti significativi e i libri, naturalmente. I libri, più che oggetti, sono pezzi di vita dell’umanità . Quindi siamo noi stessi. Ad una certa età è meglio, credo, non soffermarsi troppo sulle cose vecchie, ma rimanere aperti al nuovo, al ricambio, al futuro, respirare aria nuova.  Ah, insieme abbiamo anche visitato la mostra “Le radici della montagna”a Palazzo Trentini: gradevole, con quadri belli di Garbari, Moggioli, ecc. Davanti ad alcuni ci siamo soffermate a lungo. Perchè scrivo questo? Perchè il sottotitolo del mio blog è: La vita oltre i 60…quindi voglio dire ai miei coetanei che di cose belle da fare ce ne sono.  Mi sono accorta che scrivendo ho sentito meno la lacerazione del distacco da mia figlia che ora sta dirigendosi verso Chiavari e suo marito, ma intravvedo anche sul tavolino il libro che lei avrebbe dovuto portare con sè. E’ infatti un regalo che io ho fatto a mio genero Marco, scritto, sembra, apposta per lui. Si tratta di ” Pianoforte vendesi” e chi meglio di Marco, musicista, accordatore, restauratore e vendidore di pianoforti potrebbe  leggerlo? Che Stefania l’abbia lasciato apposta affinchè la sua mamma abbia già il materiale per domani? Stefania è una figlia molto attenta e amorevole, sa che mi piace leggere e scrivere e questo blog è stato un suo grande dono.  Ma ora devo chiudere. E si sa che, parafasando Rossella O’Hara :                                                                                                  domani è …un altro libro.                                                                                              Â