VINDICATION, o i diritti delle donne
pubblicato da: admin - 8 Marzo, 2010 @ 3:31 pmE’ entrato nel nostro costume festeggiare la donna con un giorno speciale, l’ 8 marzo, per ricordare le 129 operaie morte in un laboratorio tessile  negli Stati Uniti nel 19o8. Volevano scioperare ma il “padrone” non lo permise e le chiuse a chiave non lasciando loro  così via di fuga all’incendio scoppiato poco dopo.
Quanta strada ha fatta la donna per raggiungere pari diritti degli uomini! Forse finalmente, almeno nel mondo occidentale, sembrano raggiunti. Mi pare perciò obbligatorio parlare di un’antesignana del “femminismo”, meglio dire di una giustizia necessaria, quale fu Mary Wollstonecraft la cui vita viene raccontata mirabilmente, in forma romanzata, da Frances Sherwood.
In questo appassionante romanzo, intitolato appunto “Vindication”, si legge della vita e del pensiero di questa straordinaria donna nata nel 1759 e morta di parto a soli 38 anni.
Nasce in una famiglia povera e numerosa, il padre cambia spesso lavoro, gioca, beve ed è brutale con la moglie. Mary non sopporta queste palesi ingiustizie e difende la madre cominciando a chiedersi del perchè di queste situazioni accettate supinamente.
Frances Sherwood le fa dire a proposito degli uomini : “Odiarli? Non odio gli uomini. Odio la violenza. Odio, chi , essendo più forte, vessa chi è più debole. Le donne sopportano troppe cose per amore del matrimonio”
Sono considerazioni valide purtroppo anche oggi. Quante donne sopportano violenze fisiche e psicologiche soltanto per sentirsi sicure nel legittimato contratto matrimoniale, quando oggi, finalmente, potrebbero armarsi di coraggio e vivere indipendenti?
Un’amica infelice di Mary le confesserà ” Non sono coraggiosa come te, Mary. Io non so vivere tutta da sola al mondo, senza un uomo che mi protegga:”
Invece la Woolstonecraft ce la fa, grazie soprattutto alla cultura che conquista da autodidatta. Legge molto e riesce a frequentare, grazie ad un’amica,  circoli intellettuali dove conosce persone importanti e le nuove idee dell’Illuminismo. Finalmente riesce ad abbandonare la casa paterna e trovare lavoro come dama di compagnia da una signora di Bath dove impara anche le norme comportamentali degli ambienti della “buona società “.
Continua a leggere e a studiare acquisendo una buona conoscenza della storia, della politica e della cultura del tempo. Dice : ” Chi ha mai detto che sia l’uomo il giudice unico della genialità , se la donna gode non meno di lui del dono della ragione?” Dopo un fallito tentativo di aprire una scuola, si mette a scrivere pensieri e riflessioni sull’educazione generale delle femmine, abbozzo del suo più famoso e importante libro “Vindication of the right of woman”,pubblicato dopo il 1792,  che è una critica all’educazione riservata alle donne rese incapaci dalla società del tempo di affrontare i problemi importanti della vita, perchè relegate in un ruolo “ridicolo e dannoso”, quasi di minorate psichiche.
Legge Rousseau, scrive un romanzo autobiografico dove sottolinea, come una vera romantica, l’importanza della fantasia, del sentimento religioso, del viaggio come metafora della crescita personale.
Cambia occupazioni, le vengono pubblicati alcuni scritti, frequenta ancora salotti culturali dove conosce Blake, Fuessli e il filosofo William Godwin. Lavora quindi in una casa editrice dove traduce articoli degli illuministi francese, critica Rousseau che nell’ “Emile” scrive che le donne “dovevano piacere agli uomini , essere loro utili, …render loro piacevole la vita.” (ORRORE). Le vuole trasformare in “schiave civettuole per essere l’oggetto del desiderio dell’uomo che con lei si può svagare”. Ma sono cambiate le cose oggidì?
Intanto scoppia la Rivoluzione francese e vengono stilate “Le Rivendicazioni dei diritti dell’uomo”. Pronta la Woolstonecraft risponde con il suo libro.
La sua vita sentimentale è abbastanza libera, ha una relazione con Fuessli, sebbene questi sia già sposato. Ha una figlia da un avventuriero che la farà soffrire tanto da portarla a una grave depressione. Ma il lavoro la aiuta a risollevarsi e finalmente ritrova William Godwin . Si innamorano, lei rimane incinta. Decidono di sposarsi anche se entrambi considerano il matrimonio un’inutile formalità . Vivono in due case separate per conservare la propria indipendenza.
Purtoppo questa donna impavida, eccezionale per l’epoca, libera, onesta, muore il 30 agosto 1797 dando alla luce la sua seconda figlia Mary (come lei). Affranto dal dolore il marito scriverà : “Credo che non esistesse una donna uguale a lei nel mondo”.
Ma sapete chi era sua figlia? Mary Godwin Shelley, la creatrice di Frankstein!
Anche in questa speciale giornata di fredda primavera, colorata dal giallo delle mimose, noi donne siamo soddisfatte di ciò che abbiamo raggiunto? Io direi di sì, abbiamo pari diritti legali, di opportunità , di giustizia. Ma noi siamo pronte ad essere veramente libere?
SOLSTIZIO D'INVERNO,quando la vita può ricominciare
pubblicato da: admin - 7 Marzo, 2010 @ 7:34 pmOgni tanto occorre inframmezzare le letture con un dolce e piacevole romanzo di Rosamunde Pilcher. Il libro scorre veloce  tra le mani suscitando sentimenti positivi, suggerendo forza d’animo e speranza.
 I protagonisti di Solstizio d’inverno sono due ultrasessantenni: Elfrida che appena rimasta vedova lascia Londra e si trasferisce in un villaggio dello Hampshire e Oscar, un musicista,  che perderà tragicamente la famiglia, poco dopo.
Le due solitudini che combattono il dolore della scomparsa dei loro cari cercano di consolarsi a vicenda, ma si nota più coraggio in Elfrida che riesce a trovare serenità grazie al nuovo ambiente ed a una rete di amicizie positive.
Le donne si sa affrontano meglio il dolore quando si trovano improvvisamente senza il compagno di una vita. Forse siamo più coraggiose? O abituate a soffrire di più perchè portate per nostra indole a sopportare?
Uniti dal lutto da superare, presto però Elfrida ed Oscar riusciranno entrambi a ricominciare una vita insieme. Si trasferiranno in Scozia, incontreranno altre persone e altre storie.
Le ambientazioni sono sempre suggestive, dalla campagna inglese, ai pubs fioriti di petunie, dai salotti confortevoli con il caminetto acceso, alla Scozia prenatalizia. Insomma passione, delicate emozioni, descrizioni piacevolissime, felicità che riappare.
Rosamunde Pilcher è nata nel 1924  in Cornovaglia, scenario di quasi tutti i suoi racconti, ma vive ora in Scozia. Ha scritto moltissimo e nel 2002 la Regina Elisabetta le ha conferito il riconoscimento OBE, Officer of the Order of British Empire. Dai suoi romanzi la televisione tedesca ha tratto gustosi telefilms che ogni tanto riusciamo a vedere anche noi. La bellezza sta proprio nei paesaggi stupendi della Cornovaglia o di altri parti della Gran Bretagna.
Il messaggio di questo Solstizio d’inverno è dunque che non si è mai troppo vecchi per ricominciare. Talvolta si può incontrare un altro partner con il quale condividere affetto, affinità , consonanze; ma non è sempre necessario per dare una svolta alla propria vita. Oppure?
Ci sono sessantenni che si sono rifatte una vita sentimentale appagante, altre che riescono a condurre una vita in dolce solitudine, ma colma di interessi, amicizie e un altro genere d’amore.
Talvolta è meglio essere soli, che sentirsi soli vicino a qualcuno che non ti capisce.
Che ne pensate?
LESSICO DELLA GIOIA, o la luce dentro di noi
pubblicato da: admin - 6 Marzo, 2010 @ 7:16 pmQuesto è uno dei primi libri di cui volevo parlare, ma non lo trovavo perchè mescolato ai volumi di poesia. Finalmente ieri mi è tornato tra le mani. Avrei potuto parlarne anche senza sfogliarlo, ma mi piace ricopiarne esattamente le citazioni che io ritengo illuminanti. L’autore è Lorenzo Gobbi, le edizioni sono Qiqajon della Comunità di Bose.
Io credo che, nonostante le giornate di malinconia, di nostalgia, di sofferenza, dentro di noi esista in nuce la gioia, altrimenti non riusciremmo a proseguire la vita. “La gioia sembra in attesa di un varco, di una ragione anche solo apparente per irrompere intatta nel mondo”. La gioia paragonata alla luce che si accende e ci illumina. Ci “illumina di immenso?” Ci regala “i momenti d’essere”?
La gioia è un’intima coesione con ogni cosa del creato che sembra voler dialogare con noi. Nella linfa della natura riconosciamo “il fluire del nostro sangue trasformato in ritmo di danza“; la stessa terminologia data a ciò che ci circonda è un dono amorevole di gioia. “Esprimendole, plasmiamo le cose“. L’oro non è solo metallo, ma un prezioso pegno d’amore, il frumento e la vite danno i frutti che consumiamo insieme, le foglie impersonano il nostro destino. E che dire del filosofo tedesco (non ricordo quale) che consiglia di lasciarci crescere come un giglio nel campo sotto il sole? Questa è un’immagine che spesso ripercorro per trarne coraggio e speranza. E mentre lo penso mi sento parte della terra e mi affido ad essa con più fiducia.
Per spiegare la gioia, non c’è che il lessico della luce che, per Marsilio Ficino, richiama la natura del bene. “si diffonde all’istante…senza nuocere si diffonde su tutto e penetra in tutto…e forse la luce è la stessa vita dell’anima celeste.”
La gioia è amore per la natura, per gli altri, è anche una capacità fulminea di comprendere e leggere  il mondo con attenzione e libertà .
Quali sono le immagini della gioia che vi ritornano alla mente? Reali o sognate? Io ricordo i miei sogni, anche quelli passati; anni fa ne facevo di bellissimi e pieni di gioia, come quello colorato dove una leggera pioggerella primaverile bagnava un folto cespuglio di glicine di cui percepivo il profumo o quello in cui volavo con guanti rossi su un’isola verde. E i momenti reali ? Gli abbracci alla mia tenera bambina, il meriggiare estivo nel nostro giardinetto ligure,  l’ultimo viaggio in una Provenza viola di lavanda con mio marito.
Chi contempla e riconosce immediatamente la gioia non chiede nulla, si limita ad osservarla e viverla. In tedesco Freude si riferisce all’antico Froh, forse “svelto, veloce”, quindi la caratteristica della gioia è appunto l’abitudine a illuminare brevemente le nostre vite, ma come il sole, sappiamo che ritornerà .
Poco fa mi sono affacciata alla finestra del mio condominio-nave. Mi vedevo riflessa nei vetri degli uffici vuoti della Provincia , da lontano sembravo ancora una ragazza, sentivo Stefania suonare Mozart per il concerto di domani, il sole mi scaldava il viso, il cielo azzurro cobalto sembrava illuminarsi man mano che lo osservavo, ho provato un attimo intenso di gioia. Esultanza, desiderio di ringraziare la divinità .
Lorenzo Gobbi in questa “raccolta di scintille” che ci vogliono regalare letizia e gioia, non solo ci parla dell’ etimologia della parola stessa nelle varie lingue, ma  ci racconta  di musicisti, di poeti, di scrittori che riescono a trasmetterci un godimento dell’animo, impressioni di bellezza, grazia e perfezione.
“Tutto era buono, tutto era giusto“, scrive Katherine Mansfield;  davanti alla bellezza, ai momenti “perfetti”, “il nostro corpo esulta, incontrollabile: cantiamo.” La Mansfield , di cui parlerò a lungo più avanti, era affamata di gioia come si può essere a 23 anni.
Lo si può essere a qualsiasi età ? Perchè no? Se doniamo letizia, allegria, ne saremo certamente  contraccambiati. Ho amiche solari, sorridenti, liete, che illuminano i momenti vissuti insieme. Ho la mia sorridente figlia con la quale condivido risate, riflessioni e buoni propositi per superare gli attimi di sconforto.
E si ritorna a Seneca De vita beata e ai suoi esercizi esistenziali: essere consapevoli per essere liberi.
Una ricerca per smascherare il senso della vita, calarsi in noi stessi per scoprire la nostra identità  e il proprio posto nel mondo , per condurre tutto a un’unità . E questo ce lo raccomanda Marcel Proust.
Per felicità e gioia si deve soprattutto parlare di condivisione d’amore. Gesù ci dichiara ” Questo vi ho detto perchè la mia gioia sia in voi e la vostra  gioia sia piena“.
Ma per concludere non si poteva non parlare di San Francesco, (un mio eroe), artefice della propria letizia, un miracolo alto e affascinante che si può sentire vivo ancor oggi, solo ripercorrendo la dolce terra d’Assisi. La  sua intima gioia e la sua esultanza per la vita non si sono disperse, rimangono sotto il cielo umbro, tra gli ulivi, negli uccellini , nei tramonti rosati, nel suo pensiero che travalica confini.
Questo, io, cattolica poco osservante e talvolta miscredente, ho provato l’estate scorsa ad Assisi. Una gioia palpabile, uno sbocciare di sentimenti pieni d’amore per il tutto, un desiderio di ringraziare.
NOVECENTO, il pianista sull'oceano
pubblicato da: admin - 5 Marzo, 2010 @ 6:47 pmEccomi puntualmente da ormai 45 giorni davanti al Pc con un libro accanto. Libro che ogni giorno scelgo di presentare secondo pensieri, emozioni, ricordi che vanno e vengono come onde nella mia mente. Libri che ritrovo negli scaffali oppure che vedo per la prima volta  in biblioteca o che mi vengono prestati o regalati. Molti vengono letti ma non mi sollecitano la scrittura quotidiana, altri invece mi spingerebbero a scrivere di essi per più volte. Il libro di Baricco occhieggiava con la sua copertina azzurra-nera nella parte dello scaffale ad altezza occhi. E ciò che riporta al mio cuore è dolce.
Tutti conoscerete il monologo teatrale scritto da Alessandro Baricconel 1994 e il film che Tornatore ne ha tratto quattro anni dopo con il titolo “La leggenda del pianista sull’oceano.”
La storia è quella di un neonato abbandonato a bordo del transatlantico Virginian e trovato da un marinaio di colore Danny Boodmann. Il bambino accudito con amore dapprima da Boodmann sarà in seguito “adottato” da tutto lo staff del piroscafo. Verrà chiamato Novecento perchè dice Goodmann :” L’ho trovato nel primo anno di questo nuovo, fottutisimo secolo, no?… Andrà lontano con un nome così.”
A otto anni Novecento strabilierà marinai e passeggeri con una eccezionale performance al pianoforte che evidentemente aveva imparato a suonare da solo. Ha un grandissimo talento, una tecnica straordinaria che lo rende capace di suonare “musica mai sentita prima.” Nasce così la sua leggenda unita al fatto che egli non scenderà mai a terra, ma vivrà la sua vita sul Virginian, microcosmo galleggiante che fa ininterrottamente la spola tra Europa ed America.
Le pagine di “Novecento”sono molto poche e si leggono in un’oretta o due; naturalmente si rimane colpiti dal personaggio particolare che si realizza nella musica, sospeso tra pianoforte e mare, con il timore di crearsi radici sulla terra ferma che vede come un altrove a lui estraneo. Per lui sembra non esistano compromessi o scelte, la sua esistenza ha ragione d’essere in quella piccola città che naviga sull’abisso e il suo respiro vitale sembra adattarsi al dondolio delle onde che lo hanno accompagnato sin dai suoi primi vagiti.
Una volta, da adulto,  cerca di scendere a terra, a New York.  Recita:  “Tutta quella città …non se ne vedeva la fine…Su quella maledettissima scaletta…era molto bello, tutto…e io ero grande con quel cappotto, facevo il mio figurone, e non avevo dubbi, era garantito che sarei sceso, non c’era problema/ Col mio cappello blu/ Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino/… Non è quello che vidi che mi fermò/ E’ quel che non vidi…cercai ma non c’era, in tutta quella sterminata città c’era tutto tranne…/ c’era tutto./ Ma non c’era una fine.”
“Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88…non sono infiniti, loro. Tu, sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi fare. Loro sono 88. Tu sei infinito…Questo a me piace” spiega Novecento.
E quando c’è mare grosso la nave balla e il pianoforte nelle sale di prima classe scivolano avanti e indietro “come un enorme sapone nero“.
Ricordo anch’io una notte di mare a forza 8 mentre navigavamo su una nave da crociera  attraverso il Golfo del Leone. Mi trovavo in una cabina posta ai ponti inferiori, una di quelle  destinate allo staff, il dondolio era terrbile, in più ero reduce da una brutta influenza, perciò stavo abbastamza male; ma venni “salvata” e accompagnata sul ponte A, quello di prima classe , dal pianista che poi divenne mio marito. Ci sedemmo su un divanetto che insieme al pianoforte comincio a scivolare avanti e indietro,avanti e indietro. Non avevo paura anche se sentivo ruggire il mare, perchè accanto a me c’era Piero che mi teneva la mano. C’era il mio pianista sull’oceano.
E naturalmente nostra figlia Stefania è una pianista.
LA TREDICESIMA STORIA, e il "ritorno" nello Yorkshire
pubblicato da: admin - 4 Marzo, 2010 @ 8:09 pmCon questo appassionante romanzo di Diane Setterfiled, (titolo originale “The Thirteenth Tale”) si torna nella patria dei mie personaggi preferiti: Jane Eyre, Rochester, Catherine e Heathcliff, insomma nelle brughiere delle sorelle Brontè. E si ritrovano le stesse emozioni, anche se la storia si svolge ai gioni nostri: misteri, intrighi, atmosfera gotica, colpi di scena. Inoltre, e questo mi piace tanto, è un libro che parla di libri.
La protagonista, Margaret, lavora infatti nella libreria antiquaria del padre, lavoro che ama. La vediamo mentre accarezza il dorso di vecchi testi, mentre ne aspira l’odore. La sua vita tranquilla , ma con un fondo di malinconica solitudine, viene completamente cambiata da una famosa scrittrice, Vida Winter, che la invita nella sua casa nello Yorkshire per farle  scrivere la propria biografia.
Ed ecco che l’arrivo nella magione misteriosa della carismatica e sfuggente vecchia scrittrice sarà l’inizio di scoperte sconcertanti e affascinanti. Tutto il loro rapporto si concentrerà sull’arte del narrare e sulla necessità finale della verità . Due generazioni a confronto: la timida Margaret e la spigolosa Vida dagli occhi di un verde insostenibile, entrambe accomunate dal ricordo di una sorella gemella morta. Un rapporto che lentamente diventerà importante e intenso.
Sarà Margaret a dipanare l’aggrovigliata matassa.
I gemelli è un tema che intriga tutti perchè esso evidenzia il duplice aspetto di ognuno di noi e  le domande su chi siamo o chi potremmo essere. Se ci guardiamo allo specchio chi vediamo, noi o qualcuno di simile a noi? Insomma il doppio dell’essere umano, le domande sulla realtà e la possibilità sono ingredienti della nostra vita.
L’autrice è una studiosa di letteratura francese e vive nello Yorkshire dove sono stata qualche estate fa  e dove mi piacerebbe tornare. La campagna inglese amata dapprima attraverso le mie letture preferite è diventata, dopo il mio anno in Inghiterra e alcune visite fatte poi, una mia grande passione. Di essa mi piace la dolcezza dei prati e delle colline, la romantica asprezza delle brughiere rosa, i villaggi tranquilli e fermi nel tempo , le sale da tè  che hanno nomi come The Almond Tree,  Pink roses, The quiet corner.
Mi piacerebbe avere un cottage nella campagna inglese, con un giardinetto pieno di rose color crema, un gatto e tanti tanti libri. E amici con cui parlarne.
Problemi e testimonianze della civiltà letteraria italiana
pubblicato da: admin - 3 Marzo, 2010 @ 7:52 pmIn queste notti di luna chi di noi, alzando lo sguardo in cielo, non ha sussurrato:
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Se qualcuno non l’avesse fatto può sempre correre ai ripari. E’ talmente bello in certi momenti “intimi” con la natura parlarle attraverso i versi dei grandi poeti!  Io lo faccio spesso e l’ho anche consigliato ai miei alunni. Molto presto forse ci ritroveremo a recitare: ” C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole / anzi d’antico…” e nei pomeriggi cocenti dell’estate forse ripeteremo “Meriggiare pallido e assorto / presso un rovente muro d’oro…/
Ma il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, di Giacomo Leopardi, mi è stato  ricordato, oltre che dalla luna piena di qualche notte fa, anche da Luigi che ne ha scritti alcuni versi in un commento al blog, quelli in cui il poeta, e quindi anche Luigi, desiderano volare oltre le nubi per contar le stelle, perchè forse la felicità sta nelle cose irraggiungibili . “Forse s’avess’io l’ale / da volar su le nubi,…”
 Leopardi prende spunto per questo suo  Grande Idillio da un articolo letto su un giornale francese in cui si parlava di un viaggio compiuto da un barone russo nel 1820 nell’Asia centrale. La sua immaginazione ne rimane assai colpita tanto che ricopia un passo sullo Zibaldone: ” Parecchi di essi ( dei Kirghisi, una delle popolazioni nomadi dell’Asia centrale) passano la notte seduti su una pietra a riguardare la luna e ad improvvisare parole assai tristi su arie che non lo sono da meno.”
E’ un particolare suggestivo per una sensibile anima romantica tanto che il Canto notturno…diventa una poesia filosofica in cui il pastore che interroga la luna viene identificato naturalmente con se stesso, giovane sognatore sempre pronto a farsi domande sull’esistenza e sugli spazi enigmatici del cielo stellato.
“Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?”…
“Nasce l’uomo a fatica
ed è rischio di morte il nascimento”…
“Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale”
Invidia la greggia che incosciente non conosce il tedio, quella profonda noia senza conforto che deriva proprio dalla vanità di tutto.
Appare l’ansia universale dell’uomo che si sente sperduto nell’immensità del cosmo dove la bellissima luna lo guarda, ma è insensibile al dramma dell’esistenza umana. Persone dotte o semplici pastori, ogni uomo è consapevole dell’inutilità della vita in cui l’unica risposta è nell’ultimo verso “…è funesto a chi nasce il dì natale.”
Sappiamo tutti del “pessimismo cosmico” di Leopardi, ma sappiamo anche con quanta forza combatte attraverso le sue opere, le sue speculazioni filosofiche  e quanto è vitale la sua lotta .
A noi rimangono anche immaginifiche  evocazioni come quelle indimenticabili  della siepe sul suo “infinito”, della donzelletta con rose e viole, del canto di Silvia a maggio, e soprattutto della luna, nivea dea silenziosa indifferente e irraggiungibile.
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L'IDIOTA, di Fédor Michà jlovic Dostoévskij
pubblicato da: admin - 2 Marzo, 2010 @ 9:10 pm E quale cambiamento nelle mie letture ! Dalla campagna inglese di Thornfield e i salotti borghesi di Liala, mi ritrovai nella grande madre  Russia! Mi prese  un fortissimo incantamento per l’ambiente e i personaggi di Dostoévskij, primi fra tutti per il principe Myskin. Da un’amica della mamma, un’operaia comunista, mi vennero regalati “I Demoni” e “L’Idiota” quando avevo appena 17 anni ( tuttora conservati gelosamente),  ed io cominciai a leggerli  con voracità , nonostante occorressero attenzione e grande impegno. Entrai con tutta me stessa nella Pietroburgo di metà Ottocento, nei salotti accanto al samovar, seguendo le colte conversazioni,  sillabando ad alta voce i nomi così affascinanti come Natà s’ja Filippovna, principe Lev Nikolà jevic Myskin, scoprendo soprattutto quanto profondo è il nostro animo umano e quanto Dostoévskij ne sapesse scandagliare gli aspetti più misteriosi. Più che Freud fu questo grande autore russo che mi iniziò all’analisi introspettiva.
Parafrasando una trasmissione radiofonica di Radio Tre “Sulla via di Damasco” dove agli intervistati viene chiesto quale libro è stato illuminante per la propria formazione, anch’ io dirò che “L’Idiota” è stata una rivelazione fulminante,  sia per il mio percorso  di lettrice che per la mia crescita personale, proprio per la ricchezza e varietà dei comportamenti umani descritti. L’universo dell’Idiota comprende varie tipologie umane: dall’irreprensibile e sensibile Aglà ja che si innamora platonicamente del principe,  alla sensuale e profondamente umana Natà s’ja, dall’ambiguo ateo nichilista Rogozin al meschino Ganja. E tutto intorno c’è la solita società di parassiti mondani, volti solamente al culto del denaro e del proprio orgoglio.
Si distacca la figura del principe Myskin che per Dostoévskij è l’eroe realmente buono. Lo stesso autore nella ricerca di questa tipologia umana dichiara di rifarsi al Don Chisciotte perchè anch’egli è buono e deriso, e non conosce il proprio valore.
Myskin è un aristocratico che soffre di epilessia alternata a stati di “ebetudine”, resa patetica agli occhi di tutti dalla sua accettazione ingenua di un “credo di amore universale”
Il suo ritorno dalla clinica svizzera, dove è stato curato, a San Pietroburgo, città  preda del denaro e dell’immoralità , sembra un avvento di Cristo per salvare l’umanità ; questa analogia è descritta negli appunti dello stesso Dostoévskij dove Myskin “sarebbe stata l’immagine analogica del Cristo con le sue qualità interiori, innocenza e santità “.
I personaggi di Dostoévskij rimarranno per sempre nella memoria dei  suoi lettori, per Gary “I fratelli Karamazov”, per mio padre “Il giocatore”, per altri  Raskòlnikov di “Delitto e castigo” ( romanzo che io, quando avevo 12 anni, regalai a mai madre pensando fosse un libro giallo!!!) , per me soprattutto il principe Myskin la cui bontà innocente, l’ingenuità fraintesa mi commuovono e affascinano.
E per voi?
Quali libri vi hanno”fulminato” sulla vostra via per Damasco?
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IL BALLO, di Irène Némirovsky
pubblicato da: admin - 1 Marzo, 2010 @ 7:47 pmPresento oggi un altro breve romanzo della Némirovsky, “Il ballo” perchè strettamente intrecciato ad alcune tematiche di “Jezabel”. Fra queste  l’ambiente mondano della Parigi alto borghese degli anni’20, l’ipocrisia sociale, la rivalità madre-figlia.
Il racconto è brevissimo ma scritto in modo chiaro, essenziale e folgorante. L’autrice riesce a descrivere in poche pagine la meschinità dei nuovi ricchi che s’affacciano al “bel mondo”, bramato come bene supremo e il rapporto negativo fra una madre ambiziosa dedita esclusivamente ai piaceri mondani e un’ adolescente desiderosa di attenzione e tenerezza .
La quattordicenne Antoinette riceve solo rimproveri dalla madre tutta presa ad organizzare il ballo che la legittimerà come parte della Parigi “bene”: “Questa marmocchia mi sta sempre tra i piedi…Mi hai di nuovo macchiato il vestito con le tue scarpe sudicie…Stupida!” “Sta dritta. Almeno tenta di non sembrare gobba.”
Antoinette si sente annientata, ma nei suoi sogni cominciano ad apparire uomini che l’ammirano e la accarezzano come Andrea Sperelli e altri personaggi letterari.
Quando cerca un bacio materno, la madre sbotta “Ma lasciami in pace, m’infastidisci! ” Il pensiero predominante di quest’ultima è l’importante ballo per “far crepare d’invidia” il mondo modesto dal  quale proviene, prima delle insperate e fortunatissime operazioni in borsa del marito.
La ragazzina vorrebbe partecipare al ballo, ma la madre sbotta ” Sappi, mia cara, che io comincio soltanto adesso a vivere, capisci, io, e che non ho intenzione di avere tra i piedi una figlia da marito…”. Ed anche questo aspetto si ricollega al personaggio di Gladys Eisenach per la quale esiste prepotente la rivalità fra giovani e “vecchi”, persino fra madre e figlia!
Ma anche i giovani sono egoisti, a loro sembra inconcepibile di non potere avere  tutto: “Sono io che voglio vivere, io, io…Sono giovane , io. Mi derubano, si prendono la mia parte di felicità sulla terra…”
Non c’è amore fra le due, ma soltanto egocentrismo ed ambizione. La ragazzina si vendicherà  poi crudelmente gettando gli inviti, che doveva spedire, nella Senna. E il ballo non ci sarà .
Scritto nel 1930 quando Irène ha 27 anni, e subito dopo il suo primo romanzo di grande successo “David Golder”, questo racconto, come altri,  denuncia dolorosamente l ‘arido rapporto che la scrittrice aveva con la madre.
Sappiamo che Irène Némirovsky nasce a Kiev nel 19o3. Il padre, un ricco banchiere ebreo, è costretto con la famiglia a rifugiarsi in Francia dopo la Rivoluzione del 1917.
La giovane Irène è affidata ad una governante francese perchè la madre, disinteressata alla sua educazione, è tutta presa dalla mondanità di Parigi. Irène leggerà molto e comincerà a scrivere in francese. Il suo talento è indiscutibile e la critica manifesta la sua ammirazione a questa giovane donna elegante e mondana che riesce a scandagliare così profondamente l’animo umano. Nei suoi personaggi femminili possiamo ritrovare costantemente  la figura della madre desiderata e “odiata”.
Irène scrive e pubblica, sposa un ricco banchiere, ha due figlie, ma con l’avvento del Nazismo, e nonostante la sua conversione al Cristianesimo, sarà deportata ad Auschwitz dove morirà  di tifo nel 1942.
Uniche superstiti le due figlie, Denise ed Elisabeth che in una valigia serberanno i manoscritti della madre, tra i quali il celeberrimo “Suite francese,” pubblicato in Italia nel 2004.
La domanda prepotente che affiora alla mia mente: ma può esistere rivalità fra madre e figlia?
E un ‘altra riflessione: il pronome personale  io è forse la parola più usata?
Â
JEZABEL, ovvero la dannazione dell'eterna giovinezza
pubblicato da: admin - 28 Febbraio, 2010 @ 8:09 pmAppena conosciamo il personaggio principale di questo romanzo di Irène Némirovsky ne rimaniamo catturati. Pur accusata di omicidio Gladys Eisenach incuriosisce morbosamente per la sua bellezza che si sta sgretolando. Perchè Jezabel? Perchè come l’antico personaggio biblico, immortalata da Racine nell'”Atalia”, Gladys simboleggia non solo l’immoralità , ma soprattutto l’idolatria per la bellezza e la giovinezza da conservare per sempre a tutti i costi.
Si ripercorre la vita dell’imputata tornando ai suoi primi balli nella stagione londinese, alla fine dell’Ottocento. E’ bellissima, giovane e l’ammirazione di tutti la rendono felice, la fanno sentire invincibile e potente. Nella cintura porta infilato un mazzolino di roselline rosso scuro, ne sente il profumo, danza ebbra alla musica dei valzer : ” Che felicità . O meglio no, non era ancora la felicità , ma un’attesa, un’inquietudine divina, una sete ardente che le faceva battere più forte il cuore”
Credo che tutte noi “ragazze” ricordiamo  queste speranze e questa gioia provate ai tempi della prima giovinezza quando ci sentivamo euforiche e piene di energia. Ma la “dannazione” di Gladys è di essere troppo bella, di essere adorata da tutti gli uomini, invidiata dalle donne e questo le procura un ‘enorme voluttà che la imprigiona nel suo narcisismo. Vuole essere soltanto amata, non vuole amare.
E qui credo che la nostra somiglianza si distacchi dal suo ritratto. La sua vita sarà esclusivamente vissuta al mantenimento della giovinezza anche anagrafica, perciò bugie, sotterfugi, drammi per non rivelare la propria età .
Naturalmente può farlo, è molto ricca, vive a Parigi, ha abiti eleganti, gioielli,cosmetici,  ma questa ossessione per il tempo che passa non la farà più sentire sicura come durante i primi balli dei suoi vent’anni.
Per noi è senz’altro una figura anacronistica, ma l’invecchiare non è certo un piacere neppure per noi femministe…Gladys sottolinea purtroppo la limitazione dell’essere donna, destinata solo a piacere e a piacersi quando è giovane ? Da quando è cominciata questa esigenza? Dopo il Neolitico…? E sono stati gli uomini a far sì che una donna non più giovane  diventasse “trasparente” e brutta?
O siamo noi che talvolta rifiutiamo la serenità e la pace della “vecchiaia”?
In questa avvincente storia della Némirovsky, ci sono molti colpi di scena che non svelerò, difficili rapporti familiari, e purtroppo c’è anche la crudeltà dei giovani verso i vecchi…Domani scriverò un post su un altro suo libro.
In una trasmissione di Arbore, c’era il “filosofo” Catalano che pontificava:
é meglio essere ricchi che poveri
belli che brutti,
giovani che vecchi… Che abbia ragione?
IL RIBELLE IN GUANTI ROSA: Charles Baudelaire
pubblicato da: admin - 27 Febbraio, 2010 @ 6:59 pmNon potevo, dopo la interessante lezione su Baudelaire tenuta  della professoressa M.Cristina Corcione, esimermi dal parlare del libro di Giuseppe Montesano. Ho anche cercato i vecchi appunti universitari,  quelli scritti seguendo il corso del mio docente di letteratura francese, il poeta, Luciano Erba. Non li ho trovati naturalmente, il caos regna sovrano ormai nella mia casa, ma i ricordi sono ancora abbastanza  freschi e basta rovistare  un po’ nel mio “bagaglio culturale” per farli riaffiorare.
Seguivo le lezioni con avidità , la vita dei poeti è per me quella eccelsa, come quella dell’albatros che si sente se stesso quando  può volare ad ali spiegate al di sopra delle meschinità terrene. E proprio la poesia “L’albatros“ ha letto la bravissima e luminosa  professoressa Corcione, nella’aula magna della Utetd. Naturalmente la traduzione in italiano penalizza un po’ la musicalità dei versi in rima alternata di Baudelaire.
Souvent, pour s’amuser, les hommes d’équipage /prennent des albatros, vastes oiseux des mers, /qui suivent, indolents, compagnons de voyage,/le navire glissant le gouffres amers.
Sovente, per diletto, i marinai / catturano degli albatri, grandi uccelli marini /che seguono, indolenti compagni di viaggio, / il bastimento scivolante sopra gli abissi amari.
 Il contenuto rimane, sia nel significato metaforico dell’ albatro, simbolo del poeta incompreso e deriso appena questi “atterra” tra gli altri, sia nella scelta delle figure retoriche come la sinestesia: abissi amari.
Per me  più della famosissima “Spleen” è questa la poesia baudeleriana che mi cattura e graffia, perchè qui si parla di solitudine fra gli altri, di diversità denunciata, di incomprensione e di cosciente crudeltà .
In “Spleen“, c’è l’angoscia esistenziale del poeta che si sente prigioniero, io penso, persino di se stesso,  vede la speranza come un “pipistrello che sbatte contro i muri” e le gocce di pioggia non sono paragonate alle liberatorie e consolatrici lacrime, bensì imitano “le sbarre d’un grande carcere”. Da soli forse però si combatte meglio l’angoscia , perchè siamo noi soli di fronte a noi stessi, ed è quello che il nostro poeta riesce in parte a fare, grazie alla sua poesia.
La parola inglese spleen, che significa sentimento di noia, disagio , malessere, insofferenza rassegnata di vivere è entrata nel nostro vocabolario; io stessa in certe giornate malinconiche in cui non ho voglia di nulla dico che ho lo spleen. Succede anche a voi? Spero però che non sia così insopportabile come quello di Baudelaire!
Nel libro di Montesano ripercorriamo la vita dolorosa di questo grande poeta che ha rinnovato la poesia con il suo simbolismo e le corrispondenze, cioè le analogie con le cose; anche i profumi, i colori e i suoni come “lo spirito e i sensi” entrano in accordo totale, in una combinazione infinita di corrispondenze. Forse c’è già un’anticipazione del correlativo oggettivo di Eliot, e poi di Montale, per cui la metafora si oggettivizza, considerando l’astratto oggetti concreti. (Scusate, ma sono appassionata di poesia!) Che ne dice Luigi? E le mie colleghe e figlia  angliste? E le lettrici?
…i pensieri che diventano” un popolo muto di infami ragni che tende le sue reti”…
Per tornare alla sua biografia, impariamo che pur vivendo negli anni falsamente fiduciosi della rivoluzione industriale e del progresso, Baudelaire ne percepisce i limiti e gli inganni e si rifugia nell’Arte, come valore assoluto, dall’alto della quale, come l’albatro, ne vede però la verità deludente. La sua poesia diventa la testimonianza della crisi della coscienza borghese che anche lui, come tanti artisti, abborrisce.
Sappiamo della sua vita, dell’abuso di oppio, alcool , del suo dandismo, della sua amante mulatta chiamata con disprezzo  dai parigini la Negresse e conosciamo il suo male di vivere. Conosciamo le sue difficoltà economiche, le frequentazione dei bassifondi della città , la ricerca della bellezza proprio nel male, egli  si propone infatti “d’extraire la beautè du Mal”. Attraverso la sua esperienza di solitudine, incomprensione, il poeta sembra ripercorrere la tragedia dell’essere umano, “dell’homme double”. Si pasce nel fango di Les fleurs du mal, ma aspira anche all’Ideal.
In questo ampio romanzo Montesano si delinea come un potente citatore delle opere del poète maudit; ci ha messo 10 anni a completarlo, ma vale la pena leggerlo. Piero Sorrentino commenta : “questo libro si legge come un romanzo, perchè Montesano è riuscito prima di tutto nel piccolo miracolo di specchiarsi, e far specchiare il lettore, nel volto, dalla “smorfia che gli taglia la faccia in tutte le fotografie e fino alla fine”, del poeta, mio simile, fratello.”
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A proposito di spleen.
Appena arrivata , la mia gattina Mimilla, era molto malinconica. La sua prima infanzia era stata terribile come quella di Cosette dei Miserabili, abbandonata, ammalata, ecc. ecc. Prima di abituarsi alla tranquillità e all’amore della mia casa, era sempre piena di spleen. Quando la portai dal veterinario e lui mi chiese il suo nome da scrivere sul libretto personale io dissi:
“Mimilla di nome e…Baudelaire di cognome. Sa, è sempre piena di  spleen!”  Il veterinario mi guardò perplesso.