LETTERA DI UNA SCONOSCIUTA, di Stefan Zweig

pubblicato da: admin - 18 Marzo, 2010 @ 8:09 pm

foto blog 001scansione0019Continuo con questo piccolo libro azzurro, prestatomi da Raffaella,  a parlare di  un’altra donna  appassionata, eccessiva, come Sylvia Plath. E’ curioso come questa recentissima lettura possa agganciarsi anche al commento di Enrica “sulla fragilità e sensibilità che sono due facce della stessa medaglia e sembrano andare sempre insieme”.

Perchè “Lettera di una sconosciuta“? Perchè chi scrive questa lunga lettera d’amore è sempre rimasta sconosciuta al destinatario, un romanziere viennese. In alto, a mo’ di apostrofe un’ enigmatica frase ” A te, che mai mi hai conosciuta.”

L’uomo, che proprio quel giorno compie quarant’anni rimane incuriosito e sgomento e inizia a scorrere le venti pagine .

Ieri il mio bambino è morto” esordisce la signora misteriosa “adesso mi sei rimasto solo tu al mondo, solo tu che di me nulla sai.” Anche noi lettori leggiamo con curiosità ed empatia le pagine scritte. E ripercorriamo piano piano la vita di questa donna che sembra ormai non avere più la forza di vivere e proprio per questo, come ultimo atto disperato, riesce a confessare il suo amore eterno a un uomo conosciuto tanti anni prima, quando lei era appena un’adolescente. Prima di incontrarlo conduceva una vita opaca e malinconica insieme alla madre vedova. L’arrivo nel suo caseggiato di questo affascinanate scrittore, ricco di mobili eleganti,  oggetti esotici e soprattutto di tanti tanti libri anima, come una sirena ammaliatrice, la  sua vita di ragazzina solitaria, amante della lettura. “Una sorta di reverenza sovrannaturale si unì in me all’idea di quella moltitudine di libri”

Presto la giovinetta si renderà conto del fascino intrigante dello scrittore dalla doppia vita: dedito al gioco e alle avventure galanti, ma anche serio e introverso artista.  E quando per la prima volta egli poserà per un attimo lo sguardo su di lei , questa cadrà perdutamente innamorata. “Questo fu tutto, amore mio; ma da quell’istante, da quando avvertii su di me quello sguardo morbido e affettuoso io fui interamente tua”

Questo amore diviene l’unica sua ricchezza; su di lui proietta tutta la sua anima di sensibile e fragile fanciulla in fiore. Questo amore assoluto diviene l’unico scopo della sua vita, quasi avesse trasfuso su di lui il suo élan vitale.

Ma si può parlare di fragilità o di forza leggendo di  questo incrollabile amore? Tutti gli anni  a venire saranno dedicati a lui, tutte le sue scelte avranno il fine di poterlo amare anche da lontano, appagata soltanto da qualche fugace incontro. Il suo amore sembra rimasto quello di una bambina esaltata, un amore unico, idealizzato, volto all’ardente  desiderio di  essere riconosciuta.

Stefan Zweig è maestro nel descrivere queste passioni romantiche e travolgenti. Quando il romanzo uscì nel 1922 ebbe uno strepitoso successo.

Perchè?

 Abbiamo bisogno di letture immaginifiche, piene di amori quasi inverosimili? Che cosa cerchiamo nei libri? 

Certo io non potrei mai identificarmi in una donna come la “sconosciuta,”  (forse da ragazzina sì…) ma  ho letto la  “sua lettera”avidamente intuendo che certe passioni possano travolgere l’animo delle persone. Esempi ne potremmo sempre trovare…

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SYLVIA E TED, quando l'amore non basta

pubblicato da: admin - 17 Marzo, 2010 @ 7:01 pm

scansione0018scansione0017Il discorso su Sylvia Plath esige varie puntate. La sua breve vita conclusasi volontariamente a 30 anni suscita interesse ed empatia. Interesse per le sue poesie così forti, originali, piene di rabbia, ed empatia per il male di vivere sempre presente in lei. La mattina dell’11 febbraio 1963 Sylvia apre il rubinetto del gas nella cucina della sua casa londinese in cui abitava con i due piccoli figli. Si era da poco separata da Ted che aveva iniziato una relazione con Assia Wevill.
Siamo negli anni dell’imperante femminismo contro la tirannia maschile e da subito la curiosità dei media si accende  e accusa Ted di essere il colpevole morale del suicidio di Sylvia.

In questo ricco saggio di  Erica Wagner viene spiegata più ampiamente la straordinaria relazione amorosa dei due grandi poeti, grazie a poesie,  pagine di diari e soprattutto alle “Lettere di compleanno” scritte e  date alle stampe  da Ted Hughes due mesi prima della sua morte avvenuta nel 1998.

Per trentacinque anni Hughes aveva continuato a scrivere, senza pubblicare,  di e per Sylvia manifestandole il suo eterno affetto. Uomo di temperamento molto riservato non aveva mai cercato di difendersi  dalle accuse di marito ingrato, donnaiolo, maschilista non rivelando mai nulla che potesse nuocere ai loro due figli.

Finalmente anche Hughes parlerà di sè e del loro intenso innamoramento, del fallimento della loro unione e della difficoltà di vivere con una donna così eccessiva come Sylvia. 

Sylvia Plath è una donna decisa “ad avere tutto”, vuole realizzarsi come poeta, ma vuole anche allo stesso tempo essere una moglie e madre perfetta. Conquistare Hughes, intelletualmente suo pari, e per alcuni aspetti superiore è già una conquista. Appena dopo averlo conosciuto a Cambridge scrive:

“…voglio averlo per questa primavera inglese. Per favore, per favore…dammi il fegato e la forza di farmi rispettare, di farlo interessare a me; e non saltargli addosso come un’isterica. …Oh, sono affamata, affamata di grande amore, che sbocci esplosivo, creativo…” Non ha solo fame di Hughes; vuole un amore come vuole lei, senza nemmeno conoscere ancora la natura di lui.

Nelle Lettere di compleanno Ted ricorda:

Nè sapevo che stavo sostenendo l’audizione

per il ruolo di primo attore nel tuo dramma,

mimando i primi facili movimenti

come a occhi chiusi, cercando a tentoni il personaggio”

 Durante il loro matrimonio però essi lavoraroro fianco a fianco, spesso scrivendo poesie sullo stesso foglio, una facciata per lui, una per lei. Ted , a volte le consiglia delle tematiche e lei si lascia per un po’ guidare, fino a quando non diventa insofferente. Scriverà poi  alla madre Aurelia “Vivere separata da Ted è magnifico -non sono più nella sua ombra – ed è bello esere apprezzata per me stessa, e sapere quello che voglio.”

Raffaella, nel suo commento di ieri, mi ha ricordato che anche  Assia Wevill la donna per la quale Ted lascia  Sylvia, si suiciderà  insieme alla figlioletta nel 1969, in un modo simile a quello di Sylvia . Assia , anch’essa poetessa, era ossessionata dalla Plath, tanto da imitarne gesti o usare stessi oggetti a lei appartenuti.

Che dire? “Fragilità il tuo nome è donna?” come citava Shakespeare? O estrema sensibilità?

Ted Hughes rimane folgorato quando  vede Sylvia per la prima volta ” Mi colpirono i tuoi capelli lunghi, le onde morbide – la ciocca alla Veronica Lake. Non quello che nascondeva. Sembravano biondi. E il tuo sorriso, il tuo esagerato sorriso americano…” E ricorda anche la fascia azzurra che lui le prese al loro primo incontro. Ma Sylvia la ricorda rossa, come ” il rosso del suo cuore”.

Ted conclude le Lettere di compleanno :

Nell’abisso del rosso

ti nascondesti per sfuggire al bianco della clinica d’ossa.

Ma la gemma che perdesti era azzurra.

Non dipendeva da lui tenere la gemma della felicità di lei. Dipendeva da lei farlo, e lei non lo fece, o non potè.”

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VITA DI SYLVIA PLATH, e il suo male di vivere

pubblicato da: admin - 16 Marzo, 2010 @ 3:14 pm

Ho scoperto Sylvia Plath qualche anno fa e da allora il mio interesse per questa poetessa dalla vita infelice è cresciuto. Intanto anche l’editoria ha creato intorno a lei quasi una leggenda alimentata soprattutto dal suicidio avvenuto nel 1963, quando era appena trentenne.
La sua più famosa raccolta di poesie Ariel, uscita postuma, la fa diventare portavoce, in buona misura inconsapevole, delle generazioni arrabbiate e disilluse degli anni’60 e ’70.
“Accusando” del suo suicidio il marito Ted Hughes, essa diventa anche l’emblema della donna vittima della crudeltà maschile, la moglie tradita e abbandonata col fardello dei figli.
Ma è stato proprio così? O forse Sylvia aveva già in sé il seme dell’autodistruzione? In questa esaustiva biografia, Anne Stevenson, traccia il ritratto di una ragazza fragile e ambiziosa, esibizionista e disadattata, intelligente e arrabbiata. Una scrittrice dal talento originalissimo, ma sempre in lotta con la sua creatività.
Sylvia nasce vicino a Boston nel 1932 da padre tedesco e madre austriaca. Dopo una primissima infanzia felice in cui si sente il centro dell’universo, tutto muterà. Dapprima l’arrivo del fratellino poi più tardi la morte de padre.
Subito emergono i tratti caratteristici della sua psicologia tormentata e divisa: ricerca quasi patologica del consenso, desiderio dell’attenzione di tutti, ansia di essere sempre la più bella e la più brava.
Fisicamente è la classica ragazza tedesca, alta e bionda, ma lei si schiarirà i capelli in biondo platino, metterà sempre il rossetto rosso fuoco, curerà attentamente i suo abbigliamento. Vuole sedurre anche con la bravura nello studio e attraverso la scrittura. Otterrà successi scolastici, qualche pubblicazione di poesie.
Entra nell’esclusivo Smith College nel Massachusetts dove trova conferma al suo valore.
Verso i 20 anni cominciano le forti depressioni e due tentativi di suicidio, cui seguono ricoveri in cliniche psichiatriche e elettroshock. Guarita grazie anche alle cure di una psicologa, vince una cospicua borsa di studio, si laurea con una tesi su Dostoevskij, viene ammessa a Cambridge con copertura di tutte le spese.
Qui conoscerà Ted Hughes, un giovane e brillante poeta dello Yorkshire. Del loro amore e del loro matrimonio parlerò un’altra volta.
Da dire c’è soltanto che il sogno di una coppia di poeti che lavorano insieme mietendo successi è incrinata, nonostante la nascita di due figli, dalla gelosia e dall’invidia di Sylvia verso il marito, gelosia per le sue sempre più frequenti assenze e invidia per il suo più consolidato successo.
Sylvia scrive, scrive, per diventare famosa, ma in vita riesce a pubblicare soltanto “The colossus e altre poesie” e il travagliato romanzo autobiografico “La campana di vetro.”
E’ talmente avida di consensi che la sua scrittura talvolta risente di una programmazione razionale:scrive con dizionari sulle ginocchia, consultando i sinonimi per trovare uno stile personale che possa piacere agli editori e ai lettori. Piacere a tutti, alle aspettative degli altri, prima fra tutti, la madre Aurelia (Ma anche di questo parlerò un’altra volta).
Le sue più belle poesie saranno invece quelle scritte dopo l’abbandono di Ted, quando in preda al dolore e all’angoscia darà libero sfogo alla sua disperazione, quando scriverà per sé, per urlare il suo male di vivere.
Ed allora Ariel la farà diventare famosa, come tanto desiderava.

Mi chiedo come possa l’ambizione essere così potente da cancellare qualsiasi altra voce interna. Lei stessa scrive:
“Oh, se solo mi lasciassero a me stessa,
che poeta riuscirei a tirare fuori”

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IL TEMPO RITROVATO, e le isole della memoria

pubblicato da: admin - 15 Marzo, 2010 @ 6:59 pm

carpi 2010 014 Marcel Proust è ormai il maestro delle “intermittenze del cuore”, quelle intense sensazioni  che proviamo  nel ritrovare il nostro  tempo perduto. Sappiamo tutto della Recherche, opera divisa in  sette romanzi , che ha l’intento di scoprire l’essenza degli eventi ricollocandoli nel “tempo dell’anima” e cioè in quel preciso istante in cui manifestano il loro “valore”, quando la realtà sembra formarsi soltanto inseime con la memoria. E un avvenimento è completo, comprensibile  quando evocato in un tempo di coesistenza di presente e passato. Il famoso episodio della madeleine, citato nel primo romanzo La strada di Swann, risveglia un intero microcosmo di sensazioni, emozioni, ricordi e tutto riappare più completo. Ma è proprio nell’ultimo, Il tempo ritrovato che il cerchio dei ricordi, del passato, si chiude in un momento di autocoscienza.scansione0015

Mi è venuto spontaneo parlare di Proust dopo il  recente tuffo nel mio passato  emiliano. La cittadina di Carpi, dove ho vissuto la mia prima giovinezza e rivisitata grazie alla”tournée” con Stefania e Maria Letizia, è sempre stata presente nel mio ricordo come un sogno dai colori caldi.  Ero pronta a confrontarmi con il mio tempo perduto e ad affrontare eventuali delusioni.

Il paragone tra la vita parigina aristocratica di Marcel Proust e la mia giovinezza a Carpi è un paragone insostenibile. A Carpi non c’erano nè Swann, nè i Guermantes; c’era una laboriosa comunità tesa a un benessere tranquillo e calmo come la campagna circostante. Persone care e preziose, pur senza il salotto di Madame Verdurin o Bergotte.

Ogni luogo ha il suo fascino se parte fondamentale del proprio vissuto.

Ho cercato con mia figlia le vie della mia infanzia e  adolescenza, non certo les Champs Elysées, ma antiche strade dai soprannomi rurali come Cantarana. E qui la memoria volontaria nel voler ripensare alla  mia vecchia casa , alle mie amiche, si è intrecciata a quella spontanea: ecco il muro color ocra che dava sul cortile dell’amichetta e improvvisamente mi sembrava di udire  i nostri bisbigli e  le nostre risate complici quando vedevamo il ragazzino della porta accanto.  Ecco la nonna sulla porta verde dal battacchio di ferro… e oltre la frescura dell’ingresso adorno di aspidistre.

Scrive Proust che le sollecitazioni del presente mescolate a ciò che è sepolto nel passato portano all’essenza preziosa della vita. Si ritrova in una circolarità extratemporale una propria identità che ci fa sentire completi.

Dopo il concerto nel Castello rinascimentale di Carpi mi sono soffermata con i miei amici e alcuni spettatori a parlare delle due straordinarie musiciste, della mia lettura dei sonetti di Petrarca (che sembra spingeranno  alcuni a riprendere in mano Il Canzoniere!!!). La notte era algida, stellata, ancora qualche mucchio di neve intorno alla chiesetta Romanica e al giardino.  Mi sembrava di essere in un sogno, ma forse era una realtà rotonda in cui confluivano il presente e il passato in modo armonico e finalmente conclusi.

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IL CANZONIERE, di Francesco Petrarca

pubblicato da: admin - 15 Marzo, 2010 @ 12:29 am

carpi 2010 007200px-Francesco_Petrarca00Che cosa meglio di un’occasione poetico-musicale che parlare di Petrarca? Ieri  nel castello rinascimentale di Carpi, e  oggi pomeriggio  all’Istituo Liszt di Bologna il soprano Maria Letizia Grosselli e la pianista Stefania Neonato hanno presentato, con la loro solita  bravura e  un consolidato affiatamento, un programma intenso ed entusiasmante. Le Soirées Musicales di Rossini e Tre Sonetti di Petrarca, musicati da Liszt.

Sono stata coinvolta anch’io per leggere i tre sonetti al pubblico, prima dell’esecuzione musicale  per far capire meglio le parole di Petrarca.  Appena saputo del mio “ingaggio” ero  partita  alla ricerca  del Canzoniere nel mio grande scaffale.

Sappiamo tutti che il grande trecentista, padre della lingua italiana, insieme a Dante e a Boccaccio, nacque in Toscana nel 1304 e che scrisse tantissimo in latino e in italiano volgare.  In questo post mi soffermo soltano sui tre sonetti musicati, che insieme a canzoni, madrigali, ballate e sestine ed altri sonetti fanno parte del Canzoniere.  Quasi tutti i 366 componimenti sono dedicati a Laura, donna reale per la quale Petrarca provò un amore autentico. Non esistono documenti a tal proposito, dobbiamo credere all’infinità di versi profondi e sofferti da lui composti.

Ricordiamo esattamente  dove e quando Petrarca vide Laura per la prima volta: chiesa di S.Chiara ad Avignone, il 6 aprile 1327.  Di questo momento memorabile leggiamo il sonetto

 “Benedetto sia ‘l giorno”

Benedetto sia ‘l giorno, e ‘l mese, e ‘l’anno

e la stagione , e ‘l tempo, e l’ora, e ‘l punto

e ‘l bel paese e ‘l loco, ov’io fui giunto

da’ duo begli occhi che legato ,’ànno….

Il Canzoniere, oltre alle struggenti rime in vita e morte di Laura, parla in forma  poetica della vita interiore del poeta, vita piena di conflitti, dubbi, incertezze, tanto da poterla accumunare a quella di un uomo moderno. Lasciata la sicurezza teologica di Dante, in Petrarca troviamo un nuovo uomo, quello dell’Umanesimo, un uomo che comincia a scrutare dentro se stesso. Il suo più sofferto  conflitto interiore nasce dal desiderio di amore carnale verso Laura e il rispetto della morale cristiana. La famosa scalata verso il Monte Ventoso in Provenza acquista un valore simbolico di ciò che è  la sua vita e il suo sentire, primo uomo moderno dilaniato da insicurezze e dubbi. In questa allegorica ascesa al Mont Ventoux si ritrova la vita stessa del poeta, ardua e faticosa..

Nel secondo sonetto  cantato da Maria Letizia, “Pace non trovo” c’è una teoria di termini in antitesi, testimonianza della lacerata e conflittuale situazione interiore a causa dell’amore non ricambiato.

Pace non trovo, e no ho da far guerra,

e temo, e spero, ed ardo, e son ghiaccio:

e volo sopra ‘l cielo, e giaccio in terra;

e nulla stringo, e tutto ‘l mondo abbraccio.

Pascomi di dolor; piangendo rido;

egualmente mi spiace morte e vita.

In questo stato son, Donna, per Voi.

Ascoltare questi bellissimi versi accompagnati dalle note di Liszt è stata un puro piacere. L’arte, la poesia e la musica sono doni di cui possiamo godere.

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MINUETTO , una novella di Guy de Maupassant

pubblicato da: admin - 13 Marzo, 2010 @ 8:39 am

filarmonica 2010 004scansione0014Domenica scorsa mia figlia Stefania e la sua amica violinista Francesca Vicari hanno suonato  pezzi di Mozart nella Sala della Filarmonica di Trento, in occasione dei Concerti della Domenica.

Alla fine della Sonata in mi minore K 304  e dopo il  “Tempo di Minuetto”, il signor Riccardo Gadotti ci ha deliziato con la lettura di una bellissima novella di Guy de Maupassant, intitolata appunto “Minuetto”. E’ il racconto di un cinquantenne che ha vissuto molto, visto tante disgrazie e la brutalità della guerra, ma che nel suo cuore, più commovente di tutti,  è rimasto un ricordo intensissimo  risalente alla sua gioventù. Da ragazzo infatti, racconta, era solito passeggiare nel vivaio dei giardini del Luxembourg, un piccolo spazio pieno di siepi, dai viali calmi e stretti, tra aiuole fiorite, rosai, e alberi da frutta, “un giardino grazioso come un dolce sorriso di vecchia”

Una mattina incontra uno strano vecchietto abbigliato come nel Settecento: calzoni al ginocchio, scarpini con fibbia d’argento, merletti. Magrissimo, contorto, sorridente tiene in mano un bastone col pomo d’oro. Lo “spia” con curiosità anche nelle mattinate a venire ed ecco che un giorno egli comincia a saltellare, fare una riverenza, insomma danzare e poi inchinarsi nuovamente e mandare baci a un pubblico immaginario. Ogni giorno la stessa cosa fin quando il nostro protagonista non si mette a chiacchierare con lui. Che gioia per quel vecchietto poter  raccontare di sè: egli era stato maestro di ballo all’Opera ai tempi di Luigi XV e poi aveva sposato nientemeno che la Castris, la grande ballerina amata da principi e persino dal re.

Un pomeriggio di maggio il narratore incontra anche la famosa Castris “il suo vestito nero sembrava intriso di chiarore“. Chiede al vecchio ballerino che cos’è un minuetto e questi , trasalendo, risponde: “Il minuetto, signore, è la regina delle danze, è la danza delle regine..” Poco dopo, con un inchino galante, invita sua moglie a danzarlo. Quello che il protagonista vede sarà indimenticabile, la cosa più commovente e dolce mai vissuta. I due vecchietti si dondolano, fanno inchini, vanno avanti e indietro sorridendo e facendo smorfiette infantili, come bamboline un po’ logore mosse da un meccanismo arrugginito. La malinconia provata, mista a pietà ,dentro di sè  lo fa ridere e piangere.  Anche i due ballerini , finito il loro minuetto, si abbracciano e piangono.

Il signor Riccardo Gadotti ha letto benissimo queste righe di Maupassant lasciando nei nostri cuori lo stesso interrogativo che si pone il narratore. Perchè questo ricordo tormenta, assilla, come una ferita? Perchè la giovinezza con tutto il suo splendore finisce? Perchè la vita stessa finisce?

Fortunatamente,  Stefania e Francesca  subito dopo hanno ripreso a suonare e la musica ci ha riconciliato con l’essenza lieta della vita.

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OLIVE KITTERIDGE, una donna qualunque

pubblicato da: admin - 12 Marzo, 2010 @ 4:42 pm

scansione0013200px-Olive-kitteridge_l[1]Vincitore del premioPulitzer 2009, questo romanzo di Elizabeth Strout si fa leggere rapidamente e con piacere. La protagonista, Olive, è un’insegnante in pensione di mezza età (come me e come molte mie care amiche) che vive in una cittadina del Maine, affacciata sull’Atlantico.

Si tratta in realtà di una raccolta di 13 racconti, tenuti insieme dal filo conduttore della presenza di Olive in ognuno di essi. Talvolta lei ne è la principale protagonista, altre volte appare fugacemente o viene soltanto ricordata. 

 Olive Kitteridge influenza la vita dei suoi concittadini. E’ un tipo asciutto, talvolta irascibile, oppressiva con il marito e il figlio, ma il suo sguardo severo, da ex insegnante, è molto attento su ciò che accade. I suoi consigli lapidari e di buon senso  aiutano più di una volta ex-studenti, donne abbandonate, aspiranti suicidi.

La sua sembra un’esistenza banale, trascorsa fra casa e scuola, anche un po’ malinconica proprio nel lento e inesorabile invecchiare, con l’abbandono dei figli, le persone care che muoiono, ma tutto è  illuminato dalla consapevolezza che si “cammina” insieme e che ogni persona  è importante, così com’è, e per una piccola comunità, e per la famiglia.

E’ un libro non retorico, si parla divita verosimile, con le sue luci e le sue ombre: insoddisfazioni, rancori, amore, attenzione, malinconia, amicizia,  solitudine. Una vita come la nostra, come quella di tutti noi, ma sempre degna di essere vissuta.

Elizabeth Strout riesce a far “vedere” nitidamente in  immagini gli squarci di vita narrati, sembra  far sua la luce dipinta da  Edward Hopper, quella  che entra dall’esterno a illuminare un attimo fermo dell’esistenza di qualcuno.

E proprionell’ultimo racconto Olive, ormai settantenne, si ritrova in una stanza piena di sole a pensare “che il mondo la confondeva. Non voleva ancora lasciarlo.”

 

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HARRY, RIVISTO – E la possibilità del cambiamento

pubblicato da: admin - 11 Marzo, 2010 @ 8:27 pm

scansione0012Stiamo proseguendo sulla strada che ci eravamo prefissati? Siamo diventate le persone che volevamo essere? Forse sì, forse no, forse soltanto un po’.

Capita talvolta che un evento improvviso e traumatico, capovolga e rivoluzioni tutto il nostro modo d’essere. E’ ciò che capita ad Harry Rent, un radiologo californiano quarantenne, appena rimasto vedovo. La sua storia raccontata da Mark Sarvas coinvolge e diverte perchè anche nel dolore e nello smarrimento che Harry sta vivendo per la perdita della moglie Anna, ci sono momenti di grottesco umorismo ed eventi inaspettati. Chi si aspetterebbe che appena rimasto vedovo  egli si “innamori” di Molly la cameriera del Cafè-Rétro? Ma tutto ha un senso e un percorso “obbligato” per quest’uomo medio, “senza qualità“, ingenuo, sensibile e  un po’ incosciente. Mentre osserva la bellezza sensuale di Molly sente al posto della memoria un pozzo vuoto. Mangia per far piacere alla procace cameriera un “Montecristo”, un aborrito dolce fritto, che però diventerà il trait-d’union fra lui e la ragazza, ma non solo, fra lui e lo stesso Conte di Montecristo, Edmond Dantès. Si chiede, in questa specie di vita sospesa che si ritrova a vivere, come si sarebbe comportato proprio Dantès. Liberi pensieri, associazioni, fantasticherie assurde, ma anche improvvise azioni generose, come un consistente aiuto economico ad una grassa collega diMolly.

Lentamente si renderà consapevole di ciò che era e di ciò che vorrebbe diventare. In rapidi  flash Harry rivedrà e ricorderà con più chiarezza  e sensi di colpa gli anni dimatrimonio passati con Anna, rivivrà anche la sua inadeguatezza nei confronti di lei.

“…e infine scorge la moglie seduta sul balcone a leggere Madame Bovary. Harry si ferma un momento e la guarda..i capelli neri raccolti a coda di cavallo, la linea forte del collo. Anna ha sempre avuto fattezze regali – mento vigoroso, zigomi marcati, una faccia con un pedigree, un pedigree che a volte fa sentire Harry sminuito.”.

Harry ricorda quando Anna gli ha relegato tutti i suoi oggetti preferiti nel seminterrato, ma anche quando  lei decide di rifarsi il seno per piacere a lui che la tradisce con ragazze più giovani.

Matrimonio di incomprensioni e di cose non dette, ma anche di amore, questo è il punto di partenza da cui cercare con rabbia e nostalgia il bandolo della matassa per districare vecchi rancori e profonde emozioni. Ricominciare. Un cammino doloroso, faticoso che porterà  Harry a una rinascita consapevole e onesta. 

Si può “aggiustare il tiro” della propria vita anche senza eventi drammatici? Che cosa ci può sollecitare a cambiare e ad avere nuovi punti di vista?

Siamo le persone che volevamo essere? O almeno ci proviamo? Possiamo “rivedere” noi stessi qualche volta, come accade in Harry, rivisto?  (Harry, Revised)

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CERCANDO EMILY DICKINSON; e qualcosa di noi

pubblicato da: admin - 10 Marzo, 2010 @ 8:03 pm

La curiosità è una delle malattie più interessanti ed estenuanti da cui un lettore possa essere contagiato” scrive una critica letteraria.  E’ così anche per me. Appena ho visto in biblioteca un ennesimo scritto su una delle  mie poetesse preferite ho dovuto prenderlo e portarlo a casa.  Alessandra Cenni scava a fondo nella vita della poetessa americana, analizzando le migliaia di poesie scritte e le innumerevoli lettere destinate a varie persone. Il quadro del suo pensiero si estende in pennellate profonde e incisive. Di questa donna, fattasi volontariamente “prigioniera” nella sua stanza di Homestead ad Amherst scopriamo una verità insospettata che riguarda il suo rapporto con la madre. E’ strano che una riflessione madre-figlia si possa analizzare non dai saggi psicoanalitici che ho in casa come “Di madre in figlia”, “Mia madre, me stessa”, ma dagli scritti di questa  ragazza  dell’Ottocento, la più grande poetessa americana, quella che ha ispirato i poeti a venire, non ultimo il nostro Eugenio Montale.

Che cosa sapevamo di lei? Che il  padre autoritario, severo le dettava le regole comportamentali, sappiamo anche che  egli spesso veniva bonariamente preso in giro proprio da questa figlia dal “cervello come un diamante”. Ciononostante Emily ammirava suo padre, ne cercava la sicurezza e la protezione proiettando queste esigenze anche su altri uomini.

Ma la madre?  Emily scrive di lei “Mia madre non sa cosa significhi “pensiero”…non ho mai avuto una madre”Credo che madre significhi una persona da cui si va quando si ha bisogno”.

Mrs. Emily  Norcross Dickinson, sua madre, è senz’altro “la persona più sfuggente” della famiglia,  viene definita solo da ciò che le manca.  Ma proprio perchè sfuggente, inafferrabile è la più desiderata. Emily brama una figura femminile valida in cui identificarsi e che non sia soltanto la vestale dei lavori domestici.

La ricerca di una madre si estrinsecherà nelle poesie dedicate alla cognata Susan Gilbert e all’amica Kate Scott, dove scopriamo metafore e simbologie erotiche legate  al desiderio di cibo o alla privazione alimentare. Cibo= amore è l’esperienza psichica primaria.

Ma il vuoto affettivo che la madre “banale” le crea intorno è la spinta per la crescita della sua poesia.

Che cosa vogliamo da una madre? Che cosa diamo come madri?  Sono certa che questo sia il rapporto più importante nella vita di ciascuno di noi , soprattutto per le donne per le quali l’identificazione gioca un ruolo basilare. “Mia madre, me stessa” citavo poc’anzi.

Sulla mia pelle sento mia madre, non solo perchè mi sembra invecchiando di  assomigliarle sempre più (-mi guardo allo specchio e vedo lei -) , ma perchè la sento respirare in me, la sento veramente “ impastata” nella mia visione della vita, pur ricordando le nostre differenze.

Non sarà così per tutte? Dipenderà dalle tante circostanze della vita?

Per Emily Dickinson, dal “cuore puro e terribile “la madre è associata quasi al Terrore “Corro sempre a Casa per il Terrore, come un bambino, se mi accade qualcosa. E’ stato come una Madre tremenda , che più di tutto amavo.”

Se l’originario rapporto simbiotico  che si instaura tra madre e figlio alla nascita è appagante e rassicurante, molto più difficile è separarsene, affermare la propria individualità, “come impone di necessità la vita adulta” conclude Alessandra Cenni in questo intenso scritto “Cercando Emily Dickinson”, che come ogni buon libro, ci aiuta a cercare anche noi stessi.

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FOTO-STORIE di ordinaria immigrazione, di Enrico Fuochi

pubblicato da: admin - 9 Marzo, 2010 @ 6:46 pm

Immag0045scansione0009Ieri sera mi trovavo con gli amici dell’Accademia delle Muse, di cui anche Enrico Fuochi fa parte, a Palazzo Thun, per la sua bellissima mostra fotografica, sulla realtà degli immigrati in Trentino.

E’ straordinario quanto uno sguardo attento ed empatico possa carpire le vite degli altri: la malinconia, la letizia, la disperazione, la speranza. Ogni immagine in bianco e nero, rigorosamente quadrata, è un mondo-pensiero e un “altro da noi” che ci sono stati  donati grazie alla sensibile  macchina fotografica di Enrico.

Ogni foto una storia, un passato, un racconto, più o meno  breve, ma sempre intenso. Ho ritrovato volti noti come la signora cinese proprietaria di un noto ristorante in città, frequentato spesso da me e la mia famiglia per gli ottimi involtini primavera, altri che conosco di vista; ma soprattutto ho ritrovato con emozione il volto sorridente di  Alban un ex-alunno mio e di Marina , moglie di Enrico. Quanti anni sono passati da quando timido e piccolo come uno scricciolo cercava di integrarsi nella nostra scuola e nella nostra comunità? Ora è un gommista e la esemplare foto di Enrico Fuochi ce lo mostra giunto a una sua centratura esistenziale, proprio racchiuso dentro al cerchio di uno pneumatico. E’ rilassato, con un lieve sorriso e lo sguardo fermo. Come sua ex-insegnante e come persona sono molto fiera e commossa di avere la prova del suo “approdo” fra noi. E tutti questi altri visi? Che storie ci raccontano? 

Alcune  immagini  inquietanti ci devono scuotere: il viso imprigionato nella scatola di sardine appoggiata tra i quotidiani, una selva di matite bianche con in mezzo un’unica  nera, un po’ sbilenca. Certamente di tutta la ricchezza simbolica e psicologica che emerge da questi volti si parlerà giovedì 11 marzo, alle ore 17.30, alla presentazione del libro nella Sala degli Affreschi della Biblioteca.

A me è arrivato al cuore un afflato di corrispondenze emozionali;  mi ricordo tutto il lavoro nei miei anni di scuola per aiutare tanti bambini sperduti e sempre un po’ “stranieri” a trovare appigli per un po’ di gioia e fiducia. Come non ricordare Shanti  o Yousuf che attraverso le poesie che facevo loro scrivere rivelavano un vissuto di distacco forzato, di abbandono e cocente nostalgia per le “distese di riso che ondeggiavano come il mare”? E come non sentire il cuore aprirsi come un fiore quando questi bambini venivano accettati con naturalezza dai nostri ragazzi trentini? Non è stato sempre facile, le resistenze c’erano, ci sono e ci saranno, i pregiudizi sono forti da debellare, spesso si fa di tutta l’erba un fascio.

Distinguiamo persona e persona, ascoltiamoli, sorridiamoci. Scopriamo mondi che ci possano arricchire, colorati di pensieri affettuosi, usanze particolari, cibi nuovi. Ricordo il pane arabo cucinato da Sakina…che buono! E il regalo che mi portò tornando dal Marocco, soltanto perchè io le avevo donato un libriccino! Questi ragazzi sono assetati della nostra comprensione, del nostro rispetto, del nostro amore e sono pronti a regalarci i loro sorrisi.

E ne abbiamo visti parecchi nelle foto di Enrico Fuochi.

Insomma, ieri sera è stato un momento magico. Mi trovavo con i cari amici dell’Accademia delle Muse : Cristina la presidentessa, Riccardo il segretario che mi ha scattato la foto sopra, sua moglie Maria Teresa (K.), Marina e tanti altri. Abbiamo ascoltato la presentazione di Enrico, di Chistè e di Lucia Maestri; abbiamo brindato fra noi e con tutte le persone fotografate intorno a noi.

Storie di ordinaria quotidianità fra storie di ordinaria immigrazione.

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