DA UNA STANZA ALL'ALTRA, di Grazia Livi

pubblicato da: admin - 7 Maggio, 2010 @ 7:33 pm

scansione0003Se un giardino è il nostro spazio interiore da cercare, curare ed esserne confortati, “una stanza tutta per sè” è una necessità, soprattutto per noi donne, e non solo per quelle che amano scrivere. Partendo dal celebre lavoro di Virginia Woolf in cui si ripercorre la difficoltà per una donna ,sempre assillata da doveri quotidiani, a ritagliarsi uno spazio per la propria riflessione, Grazia Livi ci introduce nella vita di altre famose scrittrici che hanno tentato di liberarsi dai lacci del “dovere femminile”. Si parla di scrittrici dei secoli passati… ma oggigiorno la donna in generale  è riuscita a conquistarsi la “stanza tutta per sè”, sinonimo di libertà interiore, senza sentirsi colpevole?

Per Virginia Woolf, “ la stanza con poltrona”è il suo guscio che l’avvolge, la protegge dalle sue “voci” pericolose ed è uno  spazio personale che diventa più denso, più intriso di pensieri. Ed è anche lo scudo legittimato del suo isolamento. Sa di essere separata dagli altri, come “uno strumento raro che non conosce il segreto per fondersi al coro”. La sua personalità vacillante ha estremo bisogno, come di una medicina, di raccoglimento, ripiegamento dentro uno spazio in cui scrivere per capirsi e rimarginarsi. Lei , sappiamo, è ciò che scrive.

Per Jane Austen, invece, la stanza per sè, è sempre di passaggio. Riesce ad appoggiarsi agli angoli del  tavolo dopo il breakfast, quando finalmente è sola. Provvisoriamente!  Jane ha un suo ruolo nella vita familiare e  come tutte le donne è intrisa di “docilità” e cioè lascia aperto il proprio animo affinchè chiunque possa “entrarvi ed uscirvi”. Genitori, marito, figli, nipoti. E’ permesso un ritiro interiore e personale soltanto a chi entra nel chiostro o nella malattia. Jane si adegua ai suoi tempi. Si accontenta dunque,  per scrivere i suoi splendidi romanzi ,di angoli vuoti, di brevi spazi temporali solo suoi. Ma  grazie alla scrittura”sfugge” al dominio del mondo che l’attornia,  diventandone lei stessa il deus ex machina  che lo apre e chiude a suo piacere.

 Emily Dickinson  di cui abbiamo già parlato a lungo, si “imprigiona” nella stanza al piano di sopra per essere libera. Non ha altra soluzione. Veste la maschera della mansueta ragazza di buona famiglia ottocentesca per lasciare spazio alla sua precipitosa e veemente vita interiore scrivendo nella sua “stanza”. Emily riesce ad estraniarsi dal mondo circostante per rimanere arroccata al suo tempo privato. Non a caso, fino a quindici anni, ha finto con il padre di non saper leggere l’ora. E’ abile a usare tutte le strategie per essere “libera” e concentrarsi sulle proprie emozioni.

Che necessità questo spazio temporale!  Avere la mente sgombra da pensieri contingenti e cercare di rinascere ogni volta nella nostra essenza. In primavera mi accorgo di averne ancor più bisogno, come di un ricostituente. La “stanza” però si sposta: può essere il mio salotto o un giardino o un semplice “fermarsi”, sorda ai richiami, per avere la possibilità di rimescolare gli accadimenti , i pensieri, le emozioni.

In questo saggio si parla anche di Katherine Mansfield, donna libera, ma che trova nella sua “stanza” l’interlocutore più intimo. Con se stessa Katherine si sente appagata.

 E poi Anais Nin e  Caterina Percoto di cui non ho letto ancora nulla.

 Grazia Livi conclude dicendo che la “vera stanza”, cioè la libertà, richiede coraggio. Occorre uscire dal sicuro, dal protettivo, dall’abituale, dalla nicchia di una vita diminuita e prorompere in una singolarità che può risultare poco gradita agli altri.” E’ lasciare un sentiero laterale per arrivare al centro di sè,  e quindi al diritto a una stanza. E quasi sempre nel silenzio in cui affiorano le cose remote e sommerse le parole diventano scrittura.

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Lettura come  stimolo per riflettere sulla vita in generale, trarne coraggio e consolazione. Questo è lo spirito del blog.

 

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TUTTO DA CAPO, di Cathleen Schine

pubblicato da: admin - 6 Maggio, 2010 @ 6:42 pm

scansione0005Ancora negli Stati Uniti. Ed ancora una scrittrice. La Biblioteca di Trento definisce rosa i suoi romanzi , ma io non ne sono molto sicura.  Con leggerezza  e un delizioso senso dell’umorismo Cathleen Shine  sottolinea gli usi e i costumi della società americana e affronta temi esistenziali importanti quali la solitudine di molte donne, la mezza età, il conflitto fra sorelle, la visione del mondo. A volta anche sorridendo si può parlare dell’intima sofferenza dell’uomo. In fondo non si dice che “Ridendo, Arlecchino si confessò”? I suoi personaggi risultano ben delinati e rimangono impressi nella memoria.

E’ l’autrice de “La Lettera d’amore” e di un divertente originale romanzo “L’evoluzione di Jane” che si svolge alle Galapagos.

Tra New York,  Westport e Palm Spring seguiamo gli avvenimenti  di tre donne, madre e due figlie, giunte a un momento difficile della loro vita. “The three Weissmanns of Westport”  parla di Betty, settantacinquenne che viene lasciata dal marito settantottenne  innamoratosi di una donna più giovane. Sola, allontanata dal bell’appartamento di New York e senza soldi, Betty è costretta a ricominciare tutto da capo. Grazie al cugino Lou , che le mette a disposizione il suo cottage, si trasferisce a Westport insieme alle due figlie cinquantenni in crisi economica e sentimentale. Miranda, quarantanovenne molto bella, è sempre alla ricerca di emozioni, avventure. Mai stata sposata incontra a Westport un giovane biondo che la salva da un quasi sicuro annegamento . Miranda non si considera “vecchia”, fa dunque fatica a pensare che Kay sia tanto più giovane di lei. Inoltre Kay ha un bambino di due anni, delizioso. E’ di lui che inconsciamente Miranda si “innamora” ed è di lui che sentirà il vuoto, la mancanza, quando la storia sentimentale finisce.

Annie è separata con due figli grandi, è più pragmatica, è lei che lavora ancora è può sostenere madre e sorella. Anch’essa ha una storia sentimentale che finisce presto. Ma nuove prospettive, il nuovo ambiente, cambiano le aspettative delle tre donne che riusciranno a risolvere e concludere, ognuna a modo suo , il momento critico.

Intorno alle Weissmann un ambiente di ricchi ebrei; ci vengono descritte le feste del generoso cugino Lou che invita tutti a Palm Spring. Ci sono persino barzellette Yiddish ed alcuni personaggi divertenti come il suocero novantanovenne di Lou che scambia sempre sua figlia “per un vecchio con il riporto” o per un idraulico.

Nel Natale festeggiato a Palm Spring – “Perchè devono essere solo i Cristiani a divertirsi?”chiede un personaggio – viene descritta un’opulenta  cena a base di ostriche, aragoste “la cena di mare nel deserto” e una fotografica descrizione della società americana in cui la vecchiaia non deve essere evidente. “Migliaia di donne sole, una categoria identificabile, le anime perdute dell’America” pensa un invitato osservando “le donne mature, ancora belle e piene di vita nella loro maturità…bellezza ed esuberanza improvvisamente affiancate dall’unica cosa che bellezza ed esuberanza non riescono a reggere: l’irrilevanza.”

Però mi ha consolato leggere di ultrasettantenni che si innamorano, cambiano vita, ricominciano tutto da capo. Solo in America si può fare così?

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Consiglio di leggere il commento che Cinzia ha lasciato al post su “Cuore”. Ci sono domande interessanti.

Per Claudia : in marzo ho presentato il libro “Il giardino segreto”

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IL GIARDINO COME SPAZIO INTERIORE, di Ruth Amman

pubblicato da: admin - 5 Maggio, 2010 @ 6:43 pm

scansione0001giardino spazio interioreChe pioggia deprimente! E proprio nel mese più bello dell’anno: maggio “che risveglia i nidi, che risveglia i cuori”. Ma presto tornerà il sole e la gioia di immergerci nel verde. Chi è fortunato può farlo nel proprio giardino, altri guarderanno i fiori sul terrazzo, altri ancora passeggeranno nei giardini pubblici.  Certo che il giardino è l’archetipo della vita, il nostro primo luogo non è stato forse il giardino dell’Eden?

Ruth Amman, architetto e psicoterapeuta,  in questo immaginifico libro ci porta non solo in giardini grandi, piccoli, lontani o vicini, ma ci spiega la corrispondenza del giardino con il nostro spazio interiore, con il giardino dell’anima. Da curare entrambi, come fonte di energia, come porta d’accesso a ricordi e sogni. Il prendersi cura di fiori, piante, frutti è prendersi cura di noi e degli altri, come il Piccolo Principe si prendeva cura della sua rosa.

Penso alle amiche che hanno un giardino da vivere tutti i giorni : Donatella con le sue orchidee, Renata con vista mare, Cristina, Rosanella e altre. Penso anche a Maria Teresa che si prende cura di fiori e piantine sul balcone .  Persino Giuliana ha un pezzetto d’orto dietro la sua casa di Aquileia dove, fra un gatto e l’altro, riesce a curare le viole del pensiero. Penso a me che qui a Trento non  ho neppure il balcone …mentre  avrei un giardino anch’io… lontano però…E’  il mio giardinetto “volante”, quello ligure dove  ho trascorso moltissime estati. E’ “volante” perchè è a balze come tanti giardini della Liguria, tre piccoli lembi di terra che salgono verso il cielo dove nei pomeriggi assolati  volteggia padrona la poiana unendo il suo grido al pacato rintocco della campana. E’ un giardino rinato dopo decenni di sopore, grazie alle cure di mio marito. La prima volta che vidi il giardino, dopo la ristrutturazione della casa, venni rapita da un leggero incantamento che me lo fece amare immediatamente: era estate, la vera estate mediterranea, le cicale frinivano ed il sole faceva brillare la scaletta di pietra che, misteriosa, si inerpicava in alto. Profumo di rosmarino, di menta e di rose. Giunta sull’ultima piana mi sedetti sul vecchio sedile d’ardesia concedendomi senza ritegno ad un’intensa gioia pagana. Il fico allargava  in abbracci d’ombra calda i suoi rami e la palma si ergeva come una bandiera gloriosa. Sotto di me il paese innocuo e lontano, di fronte a me il muro di pietre roventi ricoperto in parte da edera e gelsomino, sopra di me un cielo amico, azzurro come il mare. Come non ubriacarsi di vita? Gli amareni e il nespolo regalano ogni estate ombre intrecciate sotto le quali  cespugli di ortensie rosa e violetto prolificano. L’arancio selvatico fa i frutti accanto alla camelia, l’albero di cachi diventa rigoglioso di verde.

Ma è un giardino lontano, come ho scritto , sia nello spazio che nel tempo ormai. Lì vi ho vissuto le  estati della parte più completa della mia vita. Oggi ho voglia di ricordarlo e di  cantare le sue calle, le rose d’amore, quelle rosso cupo, piantate  dal padre di mio marito, i suoi esili amareni che ora saranno già fioriti. Resterà il mio giardino segreto dell’anima in cui tornare nei momenti di malinconia e nostalgia e dove riuscirò a coltivare ancora con amore i miei ricordi.

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LE NOTTI CHIARE ERANO TUTTE UN'ALBA

pubblicato da: admin - 4 Maggio, 2010 @ 6:35 pm

scansione0006Ho ripensato a questo volumetto comprato 10 anni fa dopo la serata di ieri sera. Ma andiamo con ordine. Sono stata invitata dalla ospitale Cristina nella sua casa calorosa per una delle serate “accademiche”, cioè riunioni di persone che amano la musica, la letteratura, le arti in genere. Si portano torte e idee,  e Cristina ci offre non solo pizzette, bevande e  la sua generosa disponibilità, ma il suo talento di pianista.

La serata di ieri è iniziata con un concerto a quattro mani:  Cristina e Lucia  ci hanno deliziati con brani di Bach, Mozart, Fauré e Beethoven. Dopo la pausa  -libagioni con prelibatezze salate e torte  di tutti i colori, eravamo pronti per la seconda parte della serata culturale.  Il giornalista Luigi Sardi ci ha presentato il suo libro “Il compagno Mussolini”  che racconta di quando il futuro duce era ancora socialista,  delle sue visite a Trento, dei pranzi consumati a “I tre garofani”, al “Pedavena” ( – dove sembra non abbia saldato il conto – ), della relazione con Ida Dalser di Sopramonte, di cui conosciamo tutti la storia, dopo aver visto il film (“Vincere”) di Bellocchio, e tanto altro.

Interventista, Mussolini fu mandato sul fronte carsico dove venne ferito. Ho ripensato subito ad Ungaretti e  a tutti gli altri poeti che hanno combattuto. Appena tornata a casa  ho cercato nel mio scaffale senza fondo questo volumetto curato da Andrea Cortellessa.

 E’ un’antologia articolata per sezioni tematiche e mostra che cosa  la prima guerra mondiale, la grande guerra, ha significato per i maggiori poeti del Nocecento italiano.

Guerra -attesa, desiderata da chi patriotticamente voleva ricongiungere Trento e Trieste all’Italia; guerra -follia, lutto, tagedia;  guerra-festa-potenza per molti futurististi che la ritenevano la sola “igiene del mondo”. Si applaude al coraggio , alla virilità.

Persino Umberto Saba in “Congedo” scrive “Poi che il soldato che non parte in guerra / è femmina che invecchia senz’amore: e c’è un binomio, che nel mesto cuore / uno squillo ancor dà: Trento e Trieste: /poi che la vita è un male, e son moleste, / dopo la prima giovinezza, l’ore: / ma chi soldato fra i soldati muore, / resta giovane sempre sulla terra…

Si esalta la violenza come nella terribile “Ode alla violenza” del futurista E.Cardile ” “…sorgi tu Violenza, dall’abisso / ove t’incatena il sonno/ ove t’incatena la servitù e la vecchiezza :oh, Violenza, sorgi, balena in questo cielo /sanguigno, stupra le albe, / irrompi come incendio nei vesperi,/ fa di tutto il sereno una tempesta, / fa con tutte le anime un odio solo!”

Paolo Buzzi, che aderisce al Manifesto di Marinetti, scrive “…Oh gioia d’essere automa, una volta, / di provar l’anima piccola scatolare /dei piccoli soldatini di piombo in fila dura! /Oh, lussuria, sapersi / la forza d’una forza, l’arma / d’un braccio formidabile, lo svelto / strumento di morte possibile della Società. / E sentirsi,/ nella persona eretta, / la Patria, l’asta della bandiera …”

Ardengo Soffici nel suo “Aeroplano” “…Stringo il volante con mano d’aria/ Premo la valvola con la scarpa al cielo / Frrrrr frrrrrr rrrrrrr affogo nel turchino ghimè / Mangio triangoli di turchino di mammola / Fette d’azzurro…Impennamento erotico fra i pavoni reali delle nuvole/…il mio cuore meteora si spande come uno sperma / nell’abisso fecondo del sangue…/ A 6207 metri incipit vita nova…/ E tranquillamente aspettare, /Soldati gli uni agli altri più che fratelli, / La morte; che forse non ci oserebbe toccare, / Tanto siamo giovani e belli/.

Poesia bellissima se avesse un altro messaggio. Così diversa la mesta e consapevole “Fratelli” di Ungaretti : “Di che reggimento siete /fratelli? / Parola tremante / nella notte./ Foglia appena nata/ nell’aria spasimante/ involontaria rivolta/ all’uomo presente alla sua fragilita./ Fratelli.”

E allora ripenso ai tutti i giovani del ’99, a tutti i soldati che soffrendo nelle trincee hanno combattuto per un  alto ideale. Rivedo il sacrario di Re di Puglia, come lo vidi proprio il maggio scorso, nella mia ultima gita scolastica. Non c’era nessuno: il cielo plumbeo, gli altri cipressi  all’inizio, e poi quella enorme bianca  scalinata piena di nomi, tantissimi nomi  che si ergeva verso l’alto. Persino i chiassosi ragazzi delle terze smisero di parlare e di correre.

 Penso a Luigi che raccoglie con amore i cimeli della grande guerra, e lo fa con passione e grande rispetto, per non  dimenticare.

I versi che danno il titolo a questo volumetto sono di Eugenio Montale, anch’egli combattente in Trentino, sotto il monte Corno, dove nel ’16 avevano fatto prigioniero Battisti : “Valmorbia, discorrevano il tuo fondo /fioriti di piante agli àsoli. /Nasceva in noi, volti dal cieco caso, /oblio del mondo./ Tacevano gli spari, nel grembo  solitario/ non dava suono che il Leno roco. / Sbocciava un razzo su lo stelo, fioco / lacrimava nell’aria. / Le notti chiare erano tutte un’alba / e portavano volpi alla mia grotta. / Valmorbia, un nome – e ora nella scialba /memoria, terra dove non annotta. /

Montale nella sua distaccata contemplazione  ci richiama a ricordare l’innaturale.

Per fortuna  la  nostra vita si sta svolgendo  nel tempo naturale della pace.

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UNA FAMIGLIA AMERICANA, di Joyce Carol Oates

pubblicato da: admin - 3 Maggio, 2010 @ 7:10 pm

OATES-JC_famiglia0[1]JoyceCarolOates[1]I miei pensieri, in questa mattinata grigia, volano e si incrociano come le rondini che poco fa ho visto saettare  in un cielo di perla . Davanti alla finestra con la tazza del caffè in mano mi sentivo pronta, nonostante la stanchezza dovuta al  poco sonno, a inventare la mia giornata. Mi piace quando davanti a me c’è la “lavagna” vuota, senza impegni. Allora riordino e penso, coccolo la gatta e rifletto, insomma forse è proprio per questo che soffro di insonnia, perchè, come diceva mio marito, il mio cervello “non quieta mai”. Naturalmente la riflessione predominante è l’argomento di cui parlare nel post. Ma quante suggestioni ho ricevuto!   Ieri il film “Scandalo al sole” rivisto in Tv, citazione della Oates da parte di Camilla, un ennesimo romanzo di scrittrice americana che sto finendo di leggere.

Da che cosa comincio? Beh, dal famosissimo film del 1959, che noi adolescenti di allora,  abbiamo adorato insieme alla colonna sonora. Erano i tempi del boom economico ed io finalmente potevo permettermi ogni sabato di fare un po’ di acquisti, una maglietta, un libro e l’immancabile ultimo 45 giri. Quanto ho ascoltato quel disco! E naturalmente quanto mi piacevano i protagonisti, biondi, belli, ricchi …che soffrivano d’amore. La mia capacità critica non era ancora sviluppata per giudicare quel crudele e conformista  puritanesimo americano che viene anche sottolineato dalla Oates nei suoi romanzi.

Ma gli Stati Uniti erano il luogo dei nostri sogni. Eravamo tutti un po’ americani. Ora sappiamo giudicare, abbiamo visto anche i difetti di quella società consumistica, individualista, spesso crudele,   ma anche vitale, attiva, comunicativa. Mia figlia Stefania che sta finendo il dottorato nell’università di Cornell, proprio nello Stato di New York, si trova benissimo e ne parla con  entusiasmo, tenuto conto che si trova in un ambiente privilegiato.

Joyce Carol Oates è nata nel 1937 proprio nello stato di New York e nei suoi romanzi, che credo di avere letto tutti, vengono citate le località dove sta mia figlia: Ithaca,  Cornell, Binghamton, le vicine cascate del Niagara. (Un altro suo romanzo si intitola appunto  “Le cascate”).

Il primo suo  libro letto è “Una famiglia americana” il cui titolo originale, più aderente alla storia e alla sua l’essenza, è  “We were the Mulvaney“. Una famiglia felice che vive in una bella fattoria nello stato di New York. Michael e Corinne hanno quattro figli, tre maschi e una femmina, Marianne.  La loro vita è quella tipica del “sogno americano”: tranquillità economica, amore per la fattoria con i suoi animali, figli bravi, armonia familiare. Quadro perfetto di ciò che bisogna essere. Tutti li ammirano e li approvano. Sono i Mulvaney.

“Eravamo i Mulvaney, vi ricordate di noi?…Per parecchio tempo ci avete invidiato, poi ci avete compianto. Per parecchio tempo ci avete ammirato, poi avete pensato: Bene! E’ quello che si meritano.”

Questo è l’inizio della storia che si snoda  negli anni ’70. Che cosa avviene  per  cambiare lo scenario di questa classica famiglia perfetta?

La sera di San Valentino 1976, dopo un party, Marianne, la figlia modello, la brava liceale, – è anche una cheer-leader -, viene violentata da uno studente. Per lei è una distruzione intima, uno sgretolamento della propria identità e dell’autostima. Per questo non vuole denunciare il violentatore, per non sentirsi ulteriormente violentata. Diventa una vittima passiva che si sente sporca e colpevole.  I maschi della sua famiglia, primo fra tutti il padre vogliono vendetta, ma  in fondo al cuore colpevolizzano Marianne, tanto che non ne sopportano neppure la vista. Marianna sarà allontanata, neppure la madre, più moglie che madre, la aiuterà. Questo crudele atteggiamento è un’arma a doppio taglio. Sembra che nulla possa più essere rimediato e la famiglia stessa si disgregherà sotto gli occhi della società  accusatrice e implacabile.

Sembra una crudeltà esagerata quella raccontata dalla Oates?

Spero che alla Oates prima o poi venga assegnata il Nobel per la letteratura. E’ eccezionale, non solo per la sua splendida scrittura, ma per quello scandagliare profondamente l’animo umano e i costumi della nostra società del benessere.

Joyce C. Oates ha un viso interessantissimo che ci fa intuire una vita intensa, travagliata e un’anima grande e attenta.

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ETHAN FROME, un vinto

pubblicato da: admin - 2 Maggio, 2010 @ 5:10 pm

scansione0003Chissà da quale grande empatia o  profondità dell’anima scaturiscono, nei grandi scrittori, personaggi come Bartleby o Ethan Frome!  Vite inventate o incollate dall’osservazione della vita così variegata, splendida, ma anche terribile che scorre intorno a noi?

Turbata dal nichlisimo di Bartleby che non riesce a trovare dentro di sè l’élan vital di cui parla Henri Bergson, ho ripensato ad altre storie dove il destino non aiuta questa ricerca. Parlo dei Vinti. Coloro che non riescono a sottrarsi al Fato che incombe. Perchè non ce la fanno per motivi esterni da sè (penso ai Malavoglia  soggiogati da un potere dal quale non immaginano di potersi scrollare ) o perchè un interiore imperativo categorico li tiene prigioneri in una vita squallida e amara. Ed ecco Ethan Frome questo straordinario personaggio inventato ( o forse no?) da Edith Warthon, la scrittrice americana, “discepola”di Henry James, che ha perlopiù scritto della dorata alta borghesia statunitense. Qui lo sfondo non è la New York del “L’Età dell’Innocenza “, ma è una “scabra America rurale” dove vivono poveri e stanchi coltivatori alle prese con una quotidianità di sacrifici e fatiche. Non più conflitto tra individuo e gruppo sociale; qui ci troviamo nell’ambiente ruvido, aspro di un misero villaggio, Starkfield, nel Massachusetts.

Questo breve e cupo racconto  inizia , come nei romanzi classici dell’Ottocento, con un’introduzione del  narratore che racconta come, tassello  dopo tassello, sia giunto alla conoscenza di una terribile storia. Arrivato nel villaggio il narratore è subito incuriosito da un personaggio notevole “Già allora era la figura che colpiva di più a Starkfield, benchè non fosse che un rudere d’uomo. Non era tanto la  sua statura gigantesca a dare nell’occhio…era la sua figura assorta, possente…I suoi passi zoppicanti lo facevano apparire come uno che strattona una catena. C’era qualcosa di desolato e inavvicinabile nel suo volto… Ethan Frome era così irrigidito e  grigio che lo scambiai per un vecchio …”  La mirabile descrizione di Ethan sembra riassumere tutto il suo destino.

Ha quell’aspetto dal tempo dello scontro e fanno ventiquattro anni il prossimo febbraio“ racconta  un abitante del villaggio che, insieme agli altri nativi, darà un quadro completo della vicenda.

Si parte allora da un triangolo amoroso. Ethan sposa per gratitudine Zeena la quale , dopo aver  ha accudito per molto tempo la suocera ammalata , diventa ipocondriaca, spigolosa, acida, arcigna.  Per aiutarla  viene chiamata la sua giovane cugina Mattie, vitale, sorridente che sembra illuminare l’inverno esterno e interiore di Ethan, prigioniero di una solitudine e disperazione dalla quale non riesce a fuggire. Scoppia la passione, delicata, senza sentimentalismi, realistica. Uno spiraglio di possibilità, forse nella fuga? Dentro di sè, Ethan sa che non potrà mai farlo, per senso del dovere,  ma  soprattutto per l’estrema povertà che non consente l’inizio di una nuova vita.

La situazione è insostenibile. Durante la memorabile corsa in slitta con la quale Ethan deve accompagnare Mattie (scacciata da Zeena) alla stazione, i due innamorati decidono di uccidersi lanciandosi in una folle corsa contro un olmo. Uno scarto da parte di Ethan… però …nel momento in cui “si parò la faccia di sua moglie, con i mostruosi lineamenti sconvolti…”non permetterà loro di morire.

Il destino beffardo, crudele non concederà loro neppure la morte insieme, bensì ferite e menomazioni. Mattie rimane invalida e Ethan zoppo. Ripiombano nella prigione della loro condizione, vinti, in un “implacabile trio con Zeena,” sotto il dominio di Zeena, che li avrà in cura e li  controllerà.

Anche la scrittura di Edith Warthon è asciutta, spoglia, raggelata come raggelati sono  i protagonisti.

Non vedo l’ora di sfogliare le pagine dell'”Età dell’innocenza”, dove il racconto si snoda fluido, consolatorio e dove l’immaginazione e l’immedesimazione possono danzare leggere nei bellissimi salotti dell’aristocrazia statunitense di fine 800. E riguardare semmai lo splendido film di Scorsese.

La lettura apre veramente un mondo infinito : bellezza, crudeltà, gioia, dolore.  E il confronto con se stessi.

Mi fa piacere che il blog venga letto da tante persone, anche da molti che non lasciano commenti, ma  che mi scrivono e-mail, sms o mi telefonano.  Sono onorata anche del commento che Greg Dawson ha scritto dopo la presentazione del  suo libro “La pianista bambina.”

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BARTLEBY, LO SCRIVANO, ovvero l'incomunicabilità

pubblicato da: admin - 1 Maggio, 2010 @ 7:02 pm

scansione0001Mentre scrivo sento giungere da Piazza Dante  l’eco di discorsi e canzoni  per la Festa del lavoro.  Mi tornano  subito  in mente le  allegre celebrazioni per il primo maggio vissute a Carpi, tanti e tanti anni fa. Al mattino nella nostra via “Cantarana”,  come in tutte quello del centro, si era svegliati dall’allegra banda  municipale che suonava inni e marcette su un camioncino aperto. Questo avanzava lentamente, sostava davati al bar per far rifocillare i musicisti, poi  si fermava sotto la nostra finestra…e suonava un piccolo brano soltanto per mia madre affacciata con me …perchè il capobanda, un bel giovanottone dai capelli rossi, era stato un  suo  antico corteggiatore.

Ma, oltre ai miei ricordi,  c’è anche  un personaggio letterario che “vuole entrare nel blog”: è Bartleby, di  cui non conosciamo il nome di battesimo,  che viene assunto come copista  da un avvocato di Wall Street…

E’ uno dei racconti più belli di  Herman Melville, pubblicato nel 1856.

“Bartleby, the scrivaner” per Beniamino Palcido rappresenta “…il lavoratore alienato in rivolta contro il capitale.”

Se all’inizio Bartleby sembra essere un lavoratore coscienzioso e instancabile, soltanto un po’ eccentrico, col passare del tempo si rifiuterà di svolgere altre mansioni, replicando ad ogni ordine con “Preferirei di no “, “I would prefer not to”.

Il racconto è in prima persona, il narratore è l’avvocato anziano di uno stimato studio legale di New York che ha bisogno di un altro copista, oltre i due che già lavorano per lui. In risposta alla sua inserzione si presenta un giovane che rimane immobile davanti alla porta aperta dello studio, una  “figura così sbiadita nella sua decenza, miserabile nella sua rispettabilità, così disperata nella sua solitudine”. Viene assunto proprio per il suo aspetto tranquillo.  Bartleby lavora dietro un paravento. Scrive, scrive meccanicamente, “pallido e silenzioso”. Un giorno gli viene richiesto di esaminare un documento, ma egli, senza neppure uscire dal suo rifugio risponde con tono dolce e fermo “Preferirei di no“.

Perchè l’avvocato tollera questo comportamento? E’ incuriosito, intrigato, impietosito da Bartleby, dalla sua tristezza e dalla sua caparbietà.  Col passare del tempo Bartleby rifiuterà anche di copiare, e rifiuta di essere licenziato. “Preferirei di no“, risponde all’ingiunzione di andarsene.  L’avvocato  trasloca perchè Bartleby ormai non si muove più da questo studio in Wall Street (Strada del muro)che è diventata la sua casa-prigione, la sua chiusura esistenziale. Lo incarceranno nei Tombs dove morirà. Il suo datore, dopo essersi informato sulla sua vita precedente, non potrò fare a meno di  esclamare “Oh, Bartleby! Oh, umanità“

Quante interpretazioni suggerisce un personaggio siffatto! Centinaia di saggi, in America e altrove. Un critico letterario , Gianni Celati, ci spiega che l’avvocato sembra Re Lear con accanto a sè il povero pazzo.  Bartleby è una figura senza alcuna possibilità di salvezza o questa è una storia dell’alienabilità “d’una vita quasi morte nell’America del protocapitalismo”?

Bartleby, così moderno, è antesignano certamente del malessere del vivere contemporaneo in cui ci sembra di aver perduto  insieme ai valori spirituali, sociali, politici anche la capacità di comunicazione.

E’ vero ciò che disse un giorno Ezra Pound “Parlare è inutile”? 

La resistenza passiva di Bartleby di fronte alle grigie giornate senza senso, se non per ottenere il cibo, ci indicano di quanto è importante il tipo di lavoro che possiamo svolgere.

 Eroe o antieroe?  Enza parla di Bartleby come di una sorta di rivoluzionario che , contro il tran-tran quotidiano, il potere, l’allineamento ha avuto la forza di cercare la propria libertà interiore, esercitando la sua resistenza con i suoi  “Preferirei di no“. Anche a costo della vita.

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MANGIARE MEGLIO PER VIVERE PIU' A LUNGO

pubblicato da: admin - 30 Aprile, 2010 @ 5:54 pm

scansione0041Dopo la lettura  di un storia intensa come quella de “La Pianista bambina” ho bisogno di far decantare le emozioni provate. Devo aspettare almeno un giorno prima di scegliere un nuovo libro da leggere  o  di cercarne uno  già letto  nel mio  scaffale. Mi è venuto in mente di parlare del Metodo Kousmine stamattina mentre con Enza, Gemma, Terry prendevo il caffè nel delizioso bar all’aperto lungo il Fersina. Si parla sempre di tante cose, di libri certamente, di viaggi, della nostra vita, di cibo ed anche dei nostri problemi di salute.

Consideravo che ad ogni età c’è un argomento predominante: a vent’anni amore, amore, amore; a trenta ancora amore, il lavoro, il marito e i figli, a quaranta i problemi dei figli, a cinquanta per noi donne si comincia con la menopausa, a sessanta ecco …la salute!!! Infatti stamattina io mi lamentavo dei doloretti allo stomaco, Enza diceva di controllare se ho i calcoli, Gemma parlava delle sue magagne…ecc..!Abbiamo concordato che l’alimentazione ha un ruolo importante, non per niente terminiamo sempre gli incontri chiedendoci che cosa mangeremo a pranzo. Evidentemente l’appetito non ci manca.

Ma dobbiamo stare attenti a che cosa mangiamo.

 La dottoressa  Catherine Kousmine, forte di quarant’anni di ricerca ed esperienza terapeutica ci trasmette un metodo di prevenzione e guarigione  di molte malattie, spiegando che i “danni ” dell’età non sono un destino ineluttabile. Forma fisica e salute dipendono moltissimo dall’alimentazione.  I suoi due più stretti collaboratori, Alain Bondil e Marion Kaplan, si rivolgono con questo libro “ a chi desidera vivere a lungo e bene, a chi vuole conservare o ritrovare la sua potenzialità e vitalità.” Ma chi non lo vorrebbe?

Ecco allora i consigli per una mezza età serena. Ci auguriamo che chi legge questo libro si renda conto di quanto quella che siamo soliti chiamare vecchiaia sia falsata da pregiudizi e luoghi comuni di ogni sorta, che cancellano l’originalità del destino individuale e impediscono di vedere, nel tempo che passa, un cammino.”

Io non mi sento vecchia, talvolta dimentico  persino l’età che ho, ma certi acciacchi me la ricordano. Il mio medico curante dice che tutto è “nel quadro”, ma mi piacerebbe veramente stare meglio. Ecco allora che ogni tanto consulto questo libro che tengo sul comodino.

La dottoressa Kousmine analizza  i tipi antropologici,  ogni tipologia di disturbo e dà consigli mirati. Non è facile attenervisi perchè le sue cure dipendono da prodotti che occorre cercare con cura. Consiglia a tutti  di eliminare alcool e fumo, e questo è ovvio, limitare il caffè, i cibi industriali, usare solo l’olio di oliva di prima spremitura a freddo, ma dove si trova? Ci farebbe molto bene riprendere l’olio di fegato di merluzzo, contro il colesterolo (lo prenderò – ne presi tanto da bambina -!), l’olio di girasole (comperato oggi!). Pagine e pagine  interessantissime alle quali, però,  se non hai una volontà di ferro, non riesci a seguire.

Alla fine del libro  ci sono anche ricette con ingredienti  assai particolari:  miglio, ceci germogliati, cantal (?) dolce.., tamari (?)…fieno greco…ma dove si trovano queste cose? Diete mirate per tanti disturbi.

Ma soprattutto (e prima o poi riuscirò a farla) c’è la ricetta della sua famosa e mitica crema Budwig per una ricca e sana prima colazione. Si tratta di un miscuglio di semi oleosi (mandorle, nocciole), cereali crudi, formaggio bianco, frutta fresca di stagione… Una cara coppia di amici, miei coetanei, la mangia ogni mattina… Devo dire che sembrano  due “ragazzi”.

Chissà se Miki ne ha sentito parlare.

Ma perchè, poco fa, non ho resistito al cono gelato al croccantino che mi “chiamava” dal freezer e me lo sono mangiato?

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La pianista bambina, e la musica come salvezza

pubblicato da: admin - 29 Aprile, 2010 @ 6:36 pm

scansione0040In questo racconto forte e commovente la musica è letteralmente la salvezza fisica per Zhanna Arsanskaija e sua sorella Frina, due ragazzine ebree. La storia di Zhanna ci viene raccontata da suo figlio, Greg Dawson, che ne argina in parte l’emozione, ma che riesce a farci partecipare alla  terribile odissea vissuta dalle due sorelle.

Generalmente io non mi accosto a queste storie perchè mi fanno star male. Non sono mai riuscita a leggere completamente “Se questo è un uomo” di Primo Levi e non leggerò neppure “Gomorra” perchè so che i sentimenti di rabbia, sgomento, disprezzo, impotenza mi agitano troppo. Persino questo di cui parlo ho dovuto leggerlo di giorno…altrimenti la mia insonnia  sarebbe aumentata. Ho deciso di cercarlo in biblioteca perchè me l’ha consigliato Maria Rosa, ma soprattutto perchè si parla di una pianista. Essendo mamma di una pianista mi sono quindi impegnata a portarlo a termine perchè si parla tanto, fortunatamente, anche di musica.

Le vicissitudini di Zhanna sono sconvolgenti, come lo sono state quelle di tutti i perseguitati. Lei ha avuto la fortuna della musica, come consolazione, come ricchezza e come salvezza. La famiglia Arsanskaij vive in Ucraina, a Kharkov, e tutti i suoi componenti  amano la musica. Zhanna ha un grande talento e presto entra in contatto con musicisti famosi.  Sembra avviata, come la sorella, verso una carriera luminosa. Ma quando l’Ucraina nel 1941 viene invasa dall’esercito nazista, il suo sogno si trasforma in un incubo. Le terribile truppe Einsatzgruppen iniziano gli eccidi: in soli due giorni vicino a Kiev, a Babi Yar, vengono uccisi 34.000 ebrei. Gli ebrei di Kharkov  non lo sapevano. Stalin non aveva avvisato degli stermini già compiuti. Più di un milione di ebrei ucraini saranno assassinati. Tristemente famoso è Drobitsky Yar dove migliaia di ebrei vengono condotti dai nazisti per essere uccisi. Fra questi la famiglia Arsanskaij.  Zhanna ha 14 anni, sua sorella due di meno. Il padre riuscirà, corrompendo una guardia, a far fuggire dalla colonna le due figlie. Prima l’una, poi l’altra. Racconta Zhanna, ottantenne, a suo figlio  Greg ” Ci hanno messi in colonna, diretti a nord. Sapevamo che ci avrebbero uccisi, perchè a nord non c’era niente. Mio padre allora mi diede la sua giacca e mi disse: – Non importa come, ma vivi. – “

Sotto i vestiti Zhanna ha con sè la cosa più preziosa: lo spartito dell’ “Improvviso fantasia” di Chopin.  Le ragazze dovranno cambiare  nome, ma vengono aiutate da molte persone. Pur tra tremende sofferenze, fatiche e paure,  riusciranno sempre a incrociare un pianoforte e a dare prova della loro bravura. Grazie alla musica la loro strada lentamente arriverà a un lieto fine. Sbarcheranno negli Stati Uniti  dove saranno adottate da un simpatico americano amante della musica, Larry Dawson. Entreranno alla mitica Juilliard School con una borsa di studio.

In queste pagine tanti riferimenti a musicisti famosi, a pezzi musicali bellissimi che Stefania conosce. Le consiglierò di leggerlo.

Greg Dawson scoprirà tardi gli avvenimenti tragici vissuti dalla madre. Zhanna voleva dimenticare, era molto riluttante a rinvangare ricordi dei quali non aveva mai parlato con nessuno. Dopo le insistenze amorevoli del figlio giornalista ha ceduto, ci ha regalato così la sua  bellissima e terribile storia.

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ORAZIO, il poeta della giusta misura

pubblicato da: admin - 28 Aprile, 2010 @ 6:07 pm

200px-Quintus_Horatius_Flaccus[1]I nostri pensieri come quelli di duemila anni fa. Stesse riflessioni, stessi proponimenti. E sempre la ricerca della serenità, dell’equilibrio. Quinto Orazio Flacco nato nel 65 a.C. e morto nell’8 a.C., maggior poeta dell’età augustea dopo Virgilio, è senz’altro da rileggere perchè è attualissimo.

Ieri pomeriggio, nella Trento romana, ho assistito a una immaginaria intervista ad Orazio, curata da Alfonso Masi, il quale con la sua voce suadente ha illustrato l’opera e il pensiero del poeta. Coadiuvato da un altro bravissimo attore nella parte dell’intervistatore ci ha regalato frammenti degli  Epòdi,  delle Satire,  delle Epistole e delle  Odi. Un grande piacere ascoltare le parole del poeta latino, seduti ai bordi della strada romana. Di fronte a me, un vecchio signore con il bastone, appoggiato alla colonna che sorrideva in estasi.

Sappiamo delle umili origini di Orazio, della sua ricca vita intellettuale, ma scarsa di eventi esteriori. Conosciamo il suo amore per la semplicità, ma anche il suo amore per il bello. E soprattutto da lui  ascoltiamo  l’invito all’intimo raccoglimento e alla meditazione. Nella sua ricerca della saggezza e della migliore condotta di vita (e non è quello che noi cerchiamo di fare? il nostro percorso?) Orazio ci indica la giusta via, l’aurea mediocritas , quella equilibrata. Importante è  la chiarificazione del proprio io attraverso una confessione intima.  L’originalità delle Epistole sta nel fatto che sono il primo diario intimo della letteratura mondiale!!!

Orazio politico, polemico,satirico,  è interessante e attualissimo  per il desiderio di miglioramento e risanamento dei valori sociali.

 Ma nella sua contemplazione esistenziale sempre c’è l’invito ad affrontare con serenità il destino e la morte e a dimenticare le angosce con il canto e con il vino.

Fa’ senno; filtra vini e tronca le speranze troppo lunghe

per così breve vita. Mentre parliamo, il tempo invido fugge.

Goditi il dì presente, e credi poco a quella che verrà“

Carpe diem, quam minimum credula postero.

Versi della sua famosissima Ode “L’ora presente“. Nel suo invito al piacere c’è un significato simbolico e un profondo contenuto esistenziale, non ci consiglia semplicemente  di godere la vita, ma di afferrare il tempo. Cercare di ritagliare dentro di noi un attimo di tempo e uno spazio interiore di cui  possiamo essere padroni. La nostra ricerca continua di un rifugio interiore, di un’isola del cuore non dimentica la precarietà della vita, perciò ecco l’accettazione del nostro limite. Il tempo invido, beffardo, può essere sottomesso.

E’ straordinario come il suo pensiero sia il filo conduttore di tante nostre letture e riflessioni attuali. Che cosa sono 2000 anni nella storia dell’umanità?

Tanto ci sarebbe da dire su Orazio (forse Luigi potrebbe aggiungere qualcosa) . Io concludo condividendo con Orazio la preminenza dei  valori effettivi dell’individuo, su quelli  derivanti  dalla nascita o dalla ricchezza. E sottolineando ( e Orazio anticipa Fromm) l’importanza dell’Essere sull’Avere.

Da rileggere le sue Odi , ora che il tempo fugge veloce, e cercare serenità anche nel paesaggio oraziano, reale o simbolico: un ruscello, l’ombra, la natura. Quanto egli amò la casetta regalatagli da Mecenate!

Ed infine  la poesia: egli ci fa capire quanto essa  possa  sottrarre l’uomo al mondo ostile che lo circonda.

Sono felice che per caso io abbia potuto citare Orazio proprio per il mio CENTESIMO post.

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