Problemi e testimonianze della civiltà letteraria italiana
pubblicato da: admin - 3 Marzo, 2010 @ 7:52 pmIn queste notti di luna chi di noi, alzando lo sguardo in cielo, non ha sussurrato:
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
contemplando i deserti; indi ti posi.
Se qualcuno non l’avesse fatto può sempre correre ai ripari. E’ talmente bello in certi momenti “intimi” con la natura parlarle attraverso i versi dei grandi poeti!  Io lo faccio spesso e l’ho anche consigliato ai miei alunni. Molto presto forse ci ritroveremo a recitare: ” C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole / anzi d’antico…” e nei pomeriggi cocenti dell’estate forse ripeteremo “Meriggiare pallido e assorto / presso un rovente muro d’oro…/
Ma il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, di Giacomo Leopardi, mi è stato  ricordato, oltre che dalla luna piena di qualche notte fa, anche da Luigi che ne ha scritti alcuni versi in un commento al blog, quelli in cui il poeta, e quindi anche Luigi, desiderano volare oltre le nubi per contar le stelle, perchè forse la felicità sta nelle cose irraggiungibili . “Forse s’avess’io l’ale / da volar su le nubi,…”
 Leopardi prende spunto per questo suo  Grande Idillio da un articolo letto su un giornale francese in cui si parlava di un viaggio compiuto da un barone russo nel 1820 nell’Asia centrale. La sua immaginazione ne rimane assai colpita tanto che ricopia un passo sullo Zibaldone: ” Parecchi di essi ( dei Kirghisi, una delle popolazioni nomadi dell’Asia centrale) passano la notte seduti su una pietra a riguardare la luna e ad improvvisare parole assai tristi su arie che non lo sono da meno.”
E’ un particolare suggestivo per una sensibile anima romantica tanto che il Canto notturno…diventa una poesia filosofica in cui il pastore che interroga la luna viene identificato naturalmente con se stesso, giovane sognatore sempre pronto a farsi domande sull’esistenza e sugli spazi enigmatici del cielo stellato.
“Dimmi, o luna: a che vale
al pastor la sua vita,
la vostra vita a voi? dimmi: ove tende
questo vagar mio breve,
il tuo corso immortale?”…
“Nasce l’uomo a fatica
ed è rischio di morte il nascimento”…
“Ma tu mortal non sei,
e forse del mio dir poco ti cale”
Invidia la greggia che incosciente non conosce il tedio, quella profonda noia senza conforto che deriva proprio dalla vanità di tutto.
Appare l’ansia universale dell’uomo che si sente sperduto nell’immensità del cosmo dove la bellissima luna lo guarda, ma è insensibile al dramma dell’esistenza umana. Persone dotte o semplici pastori, ogni uomo è consapevole dell’inutilità della vita in cui l’unica risposta è nell’ultimo verso “…è funesto a chi nasce il dì natale.”
Sappiamo tutti del “pessimismo cosmico” di Leopardi, ma sappiamo anche con quanta forza combatte attraverso le sue opere, le sue speculazioni filosofiche  e quanto è vitale la sua lotta .
A noi rimangono anche immaginifiche  evocazioni come quelle indimenticabili  della siepe sul suo “infinito”, della donzelletta con rose e viole, del canto di Silvia a maggio, e soprattutto della luna, nivea dea silenziosa indifferente e irraggiungibile.
Devo dire che, secondo me, Leopardi, dopo lo studio approssimativo e di malavoglia delle medie, deve essere riscoperto quando sono passati un po’ di anni. Crescendo infatti, si maturano meglio le tematiche espresse dal poeta.
Comunque per quanto mi riguarda ho scoperto la poesia di Leopardi grazie alle interessanti lezioni delle medie (conservo ancora tutte le fotocopie e tutti gli appunti, mi sono tornati utili anche dopo cinque anni), e… galeotta fu quella volta!
C’è anche un’altra poesia che è dedicata al nostro satellite, “Alla luna” appunto, dove ritorna anche un tema di cui si discorreva qualche tempo fa nel blog: quello del tempo, e quindi se è meglio essere giovani che anziani, e via discorrendo. La consolazione al passare del tempo è, per Leopardi, la “ricordanza”, che crea piacere, anche il ricordo di ciò che fu doloroso. Sembra una contraddizione, ma senza ricordo, benché doloroso, siamo sterili, aridi, vuoti.
O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l’anno, sovra questo colle
Io venia pien d’angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, nè cangia stile,
O mia diletta luna. E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l’etate
Del mio dolore. Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso,
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l’affanno duri!
Mi viene in mente che Leopardi scrisse le sue riflessioni sulla luna, quando ancora l’uomo non vi aveva ancora messo piede. Ciò ha fatto sì che essa è diventata meno poetica e più prosaica. Nonostante questo le parole del poeta sono ancora motivo di riflessione e di conforto per gli animi smaliziati dei tempi moderni. La poesia che ho più nel cuore è “L’infinito”, essendo legata ad un momento di liberazione poco dopo aver subito un intervento chirurgico. Mi ha fatto capire quanto fosse stato importante averla imparata a memoria tanto da poterne trarre nuovi significati. Mi sono ritrovata a sussurrare mentalmente:
«Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare»
Mi sono sentita più serena e per un attimo felice!