Eclissi di Luna: racconto inedito di Emanuele M. Pozzo in concomitanza con la superluna rossa e l’eclissi totale.
Come preannunciato, pubblichiamo questo post circa due ore prima della eclissi totale della superluna rossa, che inizierA�A�alle ore 2:11 e si concluderA� alle 7:23. Oltre 5 ore entro le quali la Luna diverrA� progressivamente piA? rossa fino a raggiungere la totale eclisse tra le 4:11 e le 5:23, ovvero per oltre 1 ora.
E come promesso, ecco il racconto inedito di Emanuele M. Pozzo, “Eclissi di Luna“: suggestioni gotiche che vi faranno scoprireA�una Trento diversa, in cui angoli e strade che vedete e percorrete ogni giorno, con la complicitA� dei pianeti, vi rivelerannoA�lati meno noti della cittA�, porte socchiuse verso mondi al confine tra sogno e realtA�a��
Questa perA? A? solo la prima parte del racconto: la seconda e la terza verranno pubblicate rispettivamente alle ore 2:11 e alle ore 4:11, in coincidenza con l’inizio dell’eclissi e della sua fase totale! Buona lettura e… buona eclissi!
ECLISSI DI LUNA
di Emanuele M. PozzoA�
1.
CosA� il centro di Trento non lo avevo mai visto e cosA�, con tutta probabilitA�, non lo avrei rivisto mai piA?.
La sera scivolava nella notte, il cielo era limpido, la luna piena splendeva e accanto ad essa, bianco l’uno, rossastro l’altro, Giove e Marte brillavano come due gemme. Ma soprattutto, da pochi minuti il cerchio perfetto del satellite era stato intaccato dall’ombra di un’incipiente eclissi che nella sua fase totale avrebbe mutato la luna in un disco sanguigno. Non c’erano molte persone in giro in quel momento e, incomprensibilmente per me, non pareva percepirsi un grande interesse per lo spettacolo astronomico che andava preparandosi.
Con tutto ciA?, da qualche parte un abete bianco, dopo oltre duecento anni di tediosa vita vegetale, aveva deciso di farla finita crollando improvvisamente a terra e trascinando con sA� un vicino traliccio dell’alta tensione (questo dettaglio l’avrei scoperto l’indomani, dal giornale). Il risultato fu che, mentre l’eclissi di luna avanzava, la cittA� si ritrovA? improvvisamente al buio. Non accadde come si vede nei film, dove le luci dei palazzi e delle strade si spengono a blocchi come per la propagazione di un’onda: ona��off, la luce elettrica scomparve ovunque all’istante salvo per qualche locale dotato di lampade d’emergenza. CiA?, a differenza dell’eclissi, riuscA� a destare l’attenzione dei passanti, molti dei quali si arrestarono guardandosi attorno disorientati. Ah, questo sA�, pensai con una punta di acredine, mentre… ma chissenefrega di un black-out cosmico!
Qualcuno poi, piA? di una persona per la veritA�, aveva estratto il cellulare e stava controllando se vi fosse ancora campo; nessuno, nessuno pareva notare il morso che andava ingrandendosi su quella luna ingioiellata, nA� tanto meno che l’inaspettato regalo dell’oscuritA� consentisse di apprezzare al meglio l’evento astronomico perfino dalla cittA�: la preoccupazione piA? diffusa pareva riguardare le barre di segnale, non se il drago che stava divorando il nostro satellite lo avrebbe in seguito restituito al firmamento.
In cuor mio speravo che il guasto fosse di difficile risoluzione e che mi lasciasse godere lo spettacolo celeste fino in fondo. Ero in piazza del Duomo, alzai gli occhi verso la luna, ancora abbacinante nonostante la crescente porzione in ombra, con Giove e Marte ad occhieggiarle accanto. Poi mi guardai attorno e la piazza aveva un aspetto surreale, immersa in un chiarore immobile e lattescente, popolata da ombre nette e geometriche. La maggior parte della gente era sparita ed un silenzio strano la pervadeva. Decisi allora che avrei approfittato dell’occasione per osservare la cittA� sotto un’altra luce (e non si trattava di una metafora) ed iniziai a passeggiare senza una particolare meta. Dopo un po’ girai attorno alla torre civica, imboccai via Garibaldi e, superato l’abside, giunsi in vista della porta che si apre sul lato est di quel braccio del transetto. Era bellissima in quella luminositA� languida che creava un’atmosfera da elegia. Mi sedetti allora sui gradini che dalla strada scendevano verso l’acciottolato e stetti lA� per un po’ a contemplare il leone di pietra, i grifoni e le bizzarre colonne annodate; poi proseguii e girai tutt’intorno alla cattedrale fino a ritrovarmi nuovamente in piazza. Guardai in alto: la luna era quasi completamente oscurata quando mi diressi verso l’imbocco di via Belenzani.
Ora veramente non c’era nessuno in giro. Percorsi con lentezza la via, sotto gli occhi dei grotteschi mascheroni di pietra di una delle facciate alla mia destra; poco piA? avanti, dall’alto, tre busti marmorei barbuti e dall’aria severa mi squadravano, mentre sul tetto del palazzo al lato opposto stava un’aquila di bronzo dalle ali semidispiegate. Strano, pensai, come quella luna morente sembrasse rivelare inaspettati fremiti di vita in quei volti e quelle membra scolpite.
Giunsi all’altezza di Palazzo Geremia. La fase totale era iniziata e l’astro diffondeva ora una luce tenue e rossastra, unico chiarore a contrastare la notte giacchA� il black-out non era ancora stato risolto. Ammirai allora l’inedita vista degli affreschi del palazzo che mi si offriva, in particolare l’arma gentilizia contenente sA� stessa all’infinito che da sempre mi affascinava, finchA� la mia attenzione fu distratta. Il vento si era alzato e soffiava dalla piazza incanalandosi nella via, dalla cui estremitA� opposta alla mia proveniva ora un rumore ritmico, come di una porta grande e pesante che sbattesse. Era l’unico suono a rompere il silenzio in quanto il vento spirava, sA�, ma con un mormorio sommesso; risalii la via e mi diressi verso la fonte del rumore.
Si trattava di un portone di legno, posto esattamente sotto l’aquila di bronzo che dalla cima del palazzo dominava la via, e notai allora che dei tre barbuti busti di pietra di prima, due avevano il proprio sguardo severo puntato esattamente nella sua direzione. In tutto ciA? un dettaglio prosaico c’era: un cartello con un inconfondibile ideogramma che avvisava che proprio oltre quel portone si sarebbero potuti trovare dei bagni pubblici. Ma era quasi mezzanotte e avrebbe dovuto essere chiuso. Non lo era invece, ed il vento lo faceva sbattere. Per la veritA�, ora che mi ci trovavo dinnanzi il rumore era cessato quasi all’improvviso; il portone era fermo e socchiuso come un tacito invito. Anche il vento si era acquietato.
Ovviamente entrai.
Un breve passaggio si apriva in una disadorna corte interna stretta tra le alte mura del palazzo. LA� pareva che la luce rossastra della luna fosse concentrata come il fascio di un proiettore da teatro. Lo spazio, l’aria ne erano saturi e l’astro si librava tra i tetti, rassicurante e benevolo come una profezia del Vecchio Testamento.
GiA�: per la prima volta da che quella notte era iniziata mi sentivo inquieto. Anzi, inquietudine mi sembra ora una definizione riduttiva: era paura quella che provavo, anche se non sapevo quale ne fosse l’oggetto. Ricordo una paura simile in occasione della mia prima escursione notturna ad un castello in rovina: la luna piena, bianca ed abbagliante, batteva su un muro proiettando nello spazio un prisma di oscuritA� tanto profonda da evocare il nulla! Ricordo di essermici addentrato spinto da una curiositA� irrefrenabile e provando perA? al contempo un irrazionale, viscerale terrore.
Non dovrei trovarmi qui. Questo pensai, e non era l’idea di star violando una proprietA� privata a suggerirmelo. Era come se alla paura di quella volta al castello ora mancasse qualcosa: l’intima certezza del suo essere infondata. Il suo oggetto era altrettanto sfuggente di quello di allora, ma paradossalmente ora credevo di avvertirne la realtA� e l’incombenza. Con questa sensazione addosso mi aggirai per il cortiletto. C’era in realtA� ben poco da vedere: l’entrata, chiusa, dei bagni pubblici, le molte finestre buie che vi si affacciavano…
Poi notai con sorpresa la presenza in quello spazio di un oggetto bello ed assolutamente fuori contesto: un piccolo portale di marmo costituito da due colonnette, anteposte a due semipilastri come in un accenno di strombatura. Sui capitelli, ornati da volute e foglie d’acanto, poggiavano un’architrave istoriata e, sopra, un delicato arco policromo a tutto sesto. E tutto ciA? era incomprensibilmente inglobato in una squallida parete, come fosse stato il risultato di un malfunzionamento del teletrasporto dell’Enterprise. Accanto, a rafforzare il senso di estraneitA� di quegli eleganti elementi architettonici facevano bella mostra di sA� due unitA� esterne di un impianto di climatizzazione.
Il portale mi ricordava una delle illustrazioni del a�?Signore degli Anellia�?, l’ingresso alle miniere di Moria, con le rune magiche e l’enigma da risolvere per entrare. Qui non v’erano rune, ma un epigramma latino che perA?, vuoi per la luce, l’usura dei caratteri, l’uso di abbreviazioni e non ultima la lontananza dei tempi del liceo, stentavo a decifrare. Sforzai gli occhi in quel chiarore malato e lessi:
DECIPIMVR VOTIS:ET TPE FALLIMVR:ET MORS
DERIDETCVR AS:ANXIA VITA NIHIL
Lo riporto cosA� com’era scolpito: interpunzione, spazi ed abbreviazioni. Sotto, un nome, una data ed un’arma gentilizia.
Avevo giA� letto quelle parole, piA? volte seppur con qualche variante, quasi sempre come parte di un’iscrizione sepolcrale. Una traduzione approssimativa potrebbe essere: siamo ingannati dalle promesse e traditi dal tempo a�� e la morte ride delle inquietudini a�� nulla (vale) l’ansia per la vita.
Probabilmente se mi ci fossi imbattuto in un’altra circostanza, ad esempio di giorno, magari essendomi recato lA� per usufruire degli attigui servizi, l’impressione sarebbe stata del tutto diversa. Magari neppure l’avrei notato. Ma un portale di pietra sul nulla, recante un’iscrizione funebre, sotto l’unica luce di una luna di sangue, a mezzanotte… beh, francamente sfido chiunque ad accusarmi di essere troppo suggestionabile. Suggestione questa che si traduceva in intensa attrazione che, assieme alla paura di cui ero preda, aveva generato uno stallo: la mia mano si protendeva a voler toccare il muro grezzo che occludeva il portale, senza mai raggiungerlo come se oltre un’invisibile soglia agisse una forza repulsiva. Ed io stetti lA� cosA� per un tempo indefinito, finchA� un improvviso alito caldo, come il fiato di un grande animale che si fosse appena destato, mi investA�.
Il black-out era cessato e le due unitA� di climatizzazione alla mia destra erano ripartite. Guardai in alto ed un paio di finestre erano illuminate; la sommitA� della Torre della Tromba ora celava la luna alla mia vista. Frettolosamente, sentendomi un po’ come un ladro immaginavo potesse sentirsi, mi lasciai alle spalle il portale murato ed uscii su via Belenzani. Incrociai ancora lo sguardo coi busti barbuti, ma alla luce dei lampioni mi apparivano ora per ciA? che erano, degli antichi ritratti di marmo. Tutto mi appariva per ciA? che era, o tutto mi appariva come sempre mi era apparso lasciandomi credere che fosse quella la sua vera natura.
[…la II parte alle ore 2.11 del 28 settembre, in coincidenza con l’inizio dell’eclissi di luna…]
Emanuele M.Pozzo A? nato a Bolzano, un po’ di tempo fa. E’ un medico, un subacqueo ed uno schermidore. Una volta, spinto da sua moglie (non in senso letterale!), si A? pure buttato da un aereo. Ai tempi dell’universitA� era solito coinvolgere alcuni suoi amici in escursioni notturne a dei castelli, rigorosamente in rovina e possibilmente collocati nel fitto di qualche foresta. Non A? escluso che riprenda a farlo.
Quando si sente triste ascolta il Requiem di Hindemith; per dormire bene tiene un libro di Poe sul comodino.
Scrive per diletto, cimentandosi con il genere gotico del quale A? da sempre innamorato. Una bella sera, mentre presentava il proprio primo libro a un circolo di amanti della lettura, qualcuno con naturalezza lo ha definito uno scrittore. La cosa lo ha piacevolmente sorpreso e inorgoglito e da allora, per continuare a sentirsi tale, cerca di avere sempre una storia di fantasmi alla quale lavorare.
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